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"Giudici «distratti» sugli scarichi idrici "
fonte Il Sole 24 ore,P.Giampietro / Acqua
04/07/2009 - È ormai acquisito, almeno sul piano legislativo, che gli obiettivi più avanzati di prevenzione e riduzione dell'inquinamento dei corpi idrici (fiumi, laghi, acque di falda ecc.) passano attraverso più strumenti. E uno dei più incisivi è la prescrizione coattiva di valori limite di immissione degli inquinanti (nelle acque reflue domestiche, industriali, urbane) fissati dallo Stato o in sede locale dalle Regioni, salvo limiti inderogabili, a tutela degli obiettivi di qualità di ogni corpo ricettore interessato. Era peraltro evidente, già dalla prima legge di depenalizzazione ( 172/95) della legge Merli del 1976, che la sanzione per violazione degli obblighi tabellari non poteva essere identica per ogni condotta, ma andava commisurata, per entità e natura, alla pericolosità: sanzioni penali per chi immetteva sostanze «tossiche, persistenti o bioaccumulabili » (oggi sostanze pericolose: per esempio arsenico, cromo, piombo ecc.) e amministrative per mancato rispetto degli altri parametri (materiali grossolani, solidi sospesi, cloruri, fosfati ecc.). Nell'attuale regime (codice ambientale del 2006) questa modulazione del sistema sanzionatorio si ancora a due disposizioni: l'articolo 133 (già 54) del decreto legislativo 152/99, primo testo unico sulle acque, che commina sanzione amministrativa per il superamento di tutti i limiti tabellari dell'allegato 5, nonché «dei diversi limiti stabiliti dalle regioni ..., salvo che il fatto costituisca reato»;l'articolo 101 ( già 28) che dà alle Regioni la potestà di fissare «limiti diversi » (più o meno severi rispetto allo Stato) ma mai «meno restrittivi » per determinati corpi ricettori o sostanze: ad esempio, per scarichi industriali con le sostanze pericolose della tabella 5. L'inciso «salvo che il fatto costituisca reato» va riferito all'articolo 137, che punisce con arresto fino a due anni e ammenda sino a 30mila euro il superamento dei valori limite per le sostanze pericolose ( commi 5 e 6). Questo approccio punitivo «binario» (amministrativo o penale) è stato condiviso da un indirizzo interpretativo assolutamente prevalente della Cassazione, anche a Sezioni unite, dagli anni Novanta (salvo qualche isolata decisione contraria, fra cui la sentenza 4806/03) finché, a ridosso dell'entrata in vigore del nuovo codice, una decisione della stessa sezione 3 (37279/08)ha ripreso l'orientamento minoritario del 2003, recependone acriticamente la motivazione.La pronuncia, nel leggere per la prima volta l'articolo 137, collocato fra le «Sanzioni penali», valorizza la circostanza che, nel comma 5, la frase sulle sostanze pericolose («indicate nella tabella 5») è posta di seguito alla previsione sui «limiti più restrittivi fissati dalle Regioni»; dunque andrebbe riferita, sul piano sintattico, solo a quest'ultima ipotesi e non alle altre precedenti (superamento dei valori limite fissati dalle tabelle 3 e 4, per scarichi industriali in acque superficiali, fognatura e in suolo). Se ne deduce, per la prima volta nel sistema vigente, che per questi ultimi effluenti la sanzione penale si estenderebbe a ogni violazione delle tabelle e con tutte le sostanze, pericolose o no. La gravità delle conseguenze di questa interpretazione – che riconduce al penale una vasta casistica di illeciti, considerati amministrativi da almeno dieci anni, anche in mancanza di sostanze pericolose –ha creato perplessità e allarme presso Regioni, Province, Agenzie regionali per l'ambiente e associazioni di categoria, preoccupate di un'estensione della criminalizzazione che incide su una vasta gamma di imprese, compresi i gestori dei Servizi idrici integrati. Si tratta di allarmi e preoccupazioni che richiedono un'analisi puntuale della sentenza, per evidenziare le criticità che ne sconsigliano un futuro consolidamento, dagli effetti incontrollabili.
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