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"La Cassazione sulla definizione di luogo di lavoro"

fonte www.puntosicuro.it / Normativa

04/06/2012 -
Commento a cura di G. Porreca.
 
Duplice è l’insegnamento che discende da questa sentenza della Corte di Cassazione riguardanti l’uno la definizione di “ luogo di lavoro” tutelato dalla normativa antinfortunistica e l’altro l’applicazione dell’art. 299 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, contenente il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, relativo all’esercizio di fatto dei poteri direttivi.
 
Secondo il primo insegnamento il luogo di lavoro, tutelato dalla normativa antinfortunistica, deve intendersi qualsiasi posto in cui il lavoratore acceda, anche solo occasionalmente, per svolgervi concretamente la propria attività lavorativa nell’ambito delle mansioni affidategli. Nella ratio della normativa antinfortunistica, infatti, il riferimento ai " luoghi di lavoro" ed ai " posti di lavoro" non può che riguardare qualsiasi posto nel quale concretamente si svolga l'attività lavorativa. In base al secondo insegnamento, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il conferimento della qualifica di preposto deve essere attribuita, più che in base a formali qualificazioni giuridiche, facendo riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell'impresa per cui ne consegue che chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, una posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato tenuto, per ciò stesso, a norma delle disposizioni di legge, all'osservanza ed all'attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da parte dei singoli lavoratori.

Il fatto e l’iter giudiziario
Il giudice monocratico del Tribunale ha dichiarato il legale rappresentante di una società in nome collettivo responsabile del delitto di lesioni colpose aggravate commesso, con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio di un dipendente e lo ha perciò condannato alla pena di otto mesi di reclusione e 600,00 euro di multa, nonché al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, in favore della parte civile costituita alla quale ha assegnato una provvisionale di 70.000,00 euro.
 
Il lavoratore infortunato era stato incaricato dall’imputato  di recarsi presso la sede di un’altra società allo scopo di valutare i lavori da eseguire per lo smontaggio di alcune strutture (celle frigorifere ed altri impianti) site presso uno stabilimento non più in uso, al fine di formulare un preventivo alla ditta committente. Era accaduto che il lavoratore, salito durante il sopralluogo sulla copertura di una cella frigorifera alta cinque metri, utilizzando una scala metallica, era scivolato pur avendo indossato delle scarpe antiscivolo e, precipitato per terra, aveva riportato la frattura del calcagno.
 
Il giudice ha ritenuto l'imputato responsabile dell’accaduto per colpa generica e specifica consistente nella violazione dell’articolo 27 del D.P.R. n. 547/1995 e dell’art. articolo 4 comma 5 del D. Lgs. n. 626/1994 in quanto, non avendo adottato le misure necessarie a garantire la sicurezza del lavoratore, aveva causato la sua caduta e le lesioni dallo stesso riportate. Il Tribunale ha richiamato, in particolare, la norma generale dell'articolo 2087 c.c. che prevede per l'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, siano necessarie a tutelare l'integrità fisica e morale del lavoratore ed ha addebitato all'imputato di non avere provvisto il tetto della cella frigorifera di parapetti con arresto al piede, ovvero di non avere predisposto altre equivalenti misure di sicurezza idonee a prevenire cadute dall'alto.
 
Su ricorso proposto dall'imputato, la Corte d'Appello, in riforma della decisione impugnata, lo ha assolto perché il fatto non costituisce reato. A giudizio della corte territoriale, sarebbe stata incongrua la pretesa di addebitare all'imputato la mancata predisposizione di opere di sicurezza su beni di proprietà altrui, in specie di strutture fisse, come parapetti e fermapiedi, solo per consentire un semplice sopralluogo. L'articolo 27 del citato D.P.R. n. 547/1955, infatti, è volto ad assicurare l'idoneità dei luoghi ove usualmente viene svolta l'attività lavorativa per cui non sarebbe pertinente il suo accostamento ad un manufatto, appartenente a terzi, che, eventualmente, avrebbe potuto solo essere oggetto di successivi interventi volti allo smontaggio ed alla rimozione dello stesso. Il lavoratore infortunato, ha proseguito la Corte di Appello, era stato incaricato solo di svolgere un sopralluogo preliminare finalizzato alla stesura di un preventivo di spesa da consegnare al committente ed avrebbe dovuto svolgere solo una valutazione "ab externo" dello stato dei luoghi, rispetto alla quale non era agevole considerare, anche solo in termini di mera eventualità, l'esigenza di salire sopra la copertura della cella frigorifera. Per procedere alla visione della copertura, ha quindi proseguito la Corte territoriale, sarebbe stato sufficiente giungere all'altezza opportuna utilizzando la scala portatile della quale l'operaio era munito per cui l'evento lesivo non era da ricondurre al datore di lavoro e comunque non era da addebitare all'imputato essendo questi solo un rappresentante della società e non anche l’amministratore.
 
Il ricorso alla Corte di Cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza di assoluzione la parte civile ha proposto ricorso in Cassazione per il tramite del proprio difensore chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Secondo la stessa parte civile, a differenza di quanto ha ritenuto la corte territoriale, l'articolo 27 è norma di carattere generale il cui ambito di applicazione si estende a tutte le ipotesi di attività lavorativa che si svolga ad un'altezza superiore al metro e mezzo dal suolo per cui discende che esso andava applicato nel caso di specie in cui l'attività lavorativa si è svolta, all'altezza di cinque metri, sulla copertura di una cella frigorifera nel corso delle operazioni preliminari e propedeutiche al suo smontaggio. La giurisprudenza di legittimità, peraltro, ha aggiunto il ricorrente, individua il luogo di lavoro, ai fini delle norme di prevenzione degli infortuni, nel complesso dei luoghi in cui si svolge l'attività lavorativa, e quindi non solo nel cantiere o nello stabilimento in cui usualmente si svolge la specifica attività d'impresa, ma in qualsiasi altro luogo ove il lavoratore debba recarsi per esplicare le incombenze affidategli. Per quanto riguarda poi la posizione dell’imputato nell’ambito della società il ricorrente ha contestato che l’imputato fosse solo un rappresentante della stessa in quanto era invece socio della società e dunque, solo per questo motivo, figura responsabile essendo essa una società in nome collettivo.
 
Le decisioni della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondati i motivi del ricorso ed ha giudicate incoerenti e non rispettose delle specifiche norme prevenzionali le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici del della Corte di Appello. La Sez. IV ha, infatti, ritenuto erronea la non applicabilità al caso in esame delle disposizioni dettate dall’articolo 27 del D.P.R. n. 547/1955 e dell’articolo articolo 4 comma 5 lettera b) del D. Lgs. n. 626/1994, in considerazione del fatto che esse sarebbero volte a prevenire cadute dall'alto con riferimento esclusivo ai luoghi ove l'attività lavorativa usualmente si svolge, e non anche ad un manufatto sito fuori dai locali dell'azienda che avrebbe solo potuto essere oggetto di una successiva attività di smontaggio e di rimozione. Ciò che è importante, ha sostenuto la suprema Corte, è che il lavoratore si sia recato presso lo stabilimento di detta società su ordine impartitogli da chi evidentemente ricopriva, all'interno dell'azienda, un ruolo che gliene dava la facoltà e che egli si sia infortunato mentre era intento a svolgere il compito assegnatogli. “ In realtà”, prosegue la Sez. IV, “ per luogo di lavoro, tutelato dalla normativa antinfortunistica, deve intendersi qualsiasi posto in cui il lavoratore acceda, anche solo occasionalmente, per svolgervi le mansioni affidategli, e che nella ratio della normativa antinfortunistica, il riferimento ai ‘luoghi di lavoro’ ed ai ‘posti di lavoro’ non può che riguardare qualsiasi posto nel quale concretamente si svolga l'attività lavorativa”.
 
Non v'è dubbio, secondo la Sez. IV, che lo stabilimento ed i manufatti presso cui operava il lavoratore infortunato fossero divenuti per lui un "luogo di lavoro” nel senso inteso dalla richiamata normativa, sia pure per il breve lasso di tempo necessario per eseguirvi gli accertamenti commissionatigli dal datore di lavoro, e che allo stesso, nello svolgimento di tale incarico, avrebbe dovuto esser assicurata la disponibilità delle misure di sicurezza necessarie ad evitare che rimanesse vittima di infortuni. Si sarebbe potuto ricorrere ad esempio, ha sostenuto la Sez. IV, in un contesto di doverosa verifica dei rischi connessi con il richiamato incarico e di aggiornamento delle conseguenti misure di protezione, all'uso di piattaforme mobili autotrasportate o di cinture di sicurezza, misure di carattere generale che devono obbligatoriamente essere adottate in tutti i casi i cui il lavoratore sia esposto ai rischi di caduta dall'alto. La suprema Corte non ha condiviso neanche che sarebbe stato sufficiente giungere all'altezza della stessa copertura solo utilizzando detta scala e che si fosse fermato su di essa in piedi una volta giunto ai 5 metri di altezza della copertura in quanto il precario equilibrio nel quale si sarebbe venuto a trovare il lavoratore e la notevole altezza alla quale lo stesso doveva comunque giungere per le necessarie verifiche, ponevano già a considerevole rischio l'operaio ed ancor più esposto al pericolo di cadute.
 
Per quanto riguarda la posizione di garanzia ricoperta nella vicenda in esame dall'imputato non riconosciuta da parte della Corte di Appello la Sez. IV ha ritenute condivisibili pure le censure proposte dalla parte civile ricorrente. A tale proposito la Corte Suprema ha ribadito invece che: " Chiunque, in qualsiasi modo, abbia assunto posizione di preminenza rispetto ad altri lavoratori così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve considerarsi automaticamente tenuto, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 4, ad attuare le prescritte misure di sicurezza e ad esigere che le stesse siano rispettate, non avendo rilevanza che vi siano altri soggetti contemporaneamente gravati, per un diverso ed autonomo titolo, dello stesso obbligo"  ed ha quindi proseguito sostenendo che " in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il conferimento della qualifica di preposto deve essere attribuita, più che in base a formali qualificazioni giuridiche, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell'impresa. Ne consegue che chiunque abbia assunto, in qualsiasi modo, posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, così da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato, per ciò stesso, tenuto a norma del Decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, articolo 4, all'osservanza ed all'attuazione delle prescritte misure di sicurezza ed al controllo del loro rispetto da parte dei singoli lavoratori".
 
Per quanto sopra detto, quindi la suprema Corte ha concluso che l’imputato rivestiva, nella sostanza, quantomeno la qualità di preposto che aveva comunque impartito al lavoratore infortunato l'ordine di recarsi presso la lo stabilimento della società presso la quale doveva lavorare e che “ in quanto tale, aveva assunto nei confronti dello stesso una precisa posizione di garanzia, da cui nasceva l'obbligo per lo stesso di mettere a disposizione del lavoratore i mezzi di protezione necessari per l'adempimento dell'incarico senza rischi”.
 
 

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