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"Thyssen: accertata la colpa cosciente e il carcere è certo"
fonte www.puntosicuro.it / Sentenze
13/05/2014 - Un contributo dell’avvocato Dubini in ricordo di Rino Pavanello,
segretario dell'Associazione Ambiente e Lavoro, amico indimenticabile e
protagonista esemplare della prevenzione e della tutela dei lavoratori.
I processi
L'ultima parole sulla vicenda giudiziaria della Thyssenkrupp non è stata ancora
pronunciata: si tratta dell’acciaieria torinese dove nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, divampò un tragico rogo
che si è sviluppato in 'flash fire', l'onda di fuoco dell'estensione di 12
metri e che provocò la morte di sette operai, nello stabilimento che ora è
chiuso e tutta l'area è stata messa in vendita.
Il processo
d’appello è da rifare, a Torino, così ha deciso la Cassazione, a sezioni unite
penali, con sentenza del 24 aprile 2014, che ha disposto il rinvio degli atti
alla Corte d'Assise d'Appello di Torino per la «rideterminazione delle pene».
La Suprema Corte ha confermato la responsabilità degli
imputati, annullando senza rinvio una parte della sentenza di appello che
riguarda una delle «circostanze aggravanti» contestate agli imputati.
Bisognerà attendere le
motivazioni, che per legge vanno depositate entro 90 giorni, per
chiarire tutti i punti di questa decisione, ma sono chiari due punti fermi: il
primo è che la
responsabilità degli
imputati è del tutto certa, e che non fu omicidio volontario, seppure con
dolo eventuale, ma colposo, anche se la colpevolezza è aggravata dalla
previsione dell'evento, dunque con colpa cosciente.
I sette operai morti nel tragico rogo della Thyssen
non sono quindi stati vittime di un omicidio volontario con dolo
eventuale,
per quanto riguarda l'AD, ma di un
omicidio colposo aggravato dalla colpa
cosciente: i dirigenti dell’acciaieria torinese operarono con una “grande
sconsideratezza” scegliendo di non adeguare alle norme di sicurezza lo
stabilimento destinato alla chiusura entro pochi mesi.
Il verdetto della Cassazione ha accolto su questo
punto le richieste del procuratore generale Carlo Destro, che nella sua
requisitoria aveva difeso la sentenza d’appello.
La Suprema Corte ha dunque riconosciuto in via
definitiva la
responsabilità penale dei
sei imputati - tutti alti dirigenti della Thyssenkrupp – (la loro
colpevolezza non verrà più discussa in quanto tale, sono ritenuti gli autori di
quanto accaduto, per aver omesso di adottare le necessarie misure di
prevenzione incendi di cui tutti erano obbligati) ma ha disposto un processo
d'appello-bis a Torino affinché le pene vengano riviste. La Corte, infatti, ha
annullato, senza rinvio la prima sentenza d'appello «limitatamente alla
ritenuta esistenza di una delle circostanze aggravanti contestate agli imputati».
Nel nuovo processo d'appello-bis si procederà nei
confronti dei sei imputati per
omicidio
colposo, incendio e rimozione volontaria di cautele contro gli incidenti,
considerati come tre reati distinti (in precedenza l'incendio era considerato
"assorbito" dagli altri): questo inciderà sulla quantificazione della
pena, ma non sarà possibile assolvere nessuno di loro, in quanto la colpa è
stata, come anzidetto, confermata in via definitiva dalla Cassazione.
Ma non si procederà più per omicidio volontario con
dolo eventuale, come aveva chiesto la procura di Torino per il solo Espenhahn.
Quindi l'accusa resta omicidio colposo, sia pure
aggravato da una colpa cosciente.
Di più, le responsabilità penali sono assodate. È
scritto nel dispositivo. Sull'aumento o la diminuzione delle pene i giudici non
si sono pronunciati. Hanno chiesto solo una rimodulazione.
I giudici delle sezioni unite penali della Cassazione
erano chiamati a decidere se confermare o meno le condanne inflitte dalla Corte d'assise d'appello di
Torino il 28 febbraio 2013 ai sei imputati - tutti alti dirigenti della
Thyssenkrupp - nel processo sul rogo scoppiato nello stabilimento torinese
nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai.
Il collegio, presieduto dal primo presidente Giorgio
Santacroce, ha esaminato i ricorsi presentati dalla Procura generale di Torino
e dagli imputati.
Per tutti gli imputati in appello le pene erano state
notevolmente ridotte rispetto al primo grado, restando peraltro assai più
elevate rispetto a quelle solitamente inflitte in processi penali di questa
natura, poiché era stato derubricato il reato di omicidio volontario con dolo
eventuale in quello di omicidio colposo con colpa cosciente. Il sostituto pg di
Cassazione Carlo Destro ha sollecitato la conferma del verdetto d'appello.
Gli
imputati
In ogni caso per tutti gli imputati nel processo sul rogo scoppiato alla
ThyssenKrupp si
sarebbero aperte subito le porte del carcere se la sentenza non fosse stata
annullata. Le pene inflitte in appello, infatti, benchè più lievi rispetto a
quelle pronunciate dai giudici di primo grado, sono comunque tanto alte da non
permettere una misura alternativa alla detenzione in cella. Daniele Moroni,
Marco Pucci, Raffale Salerno e Cosimo Cafueri, residenti in Italia, erano in
caso di condanna già pronti a costituirsi, hanno riferito fonti delle difese
(l'avvocato Cesare Zaccone), e c'erano già stati contatti con la Procura in tal
senso. Tra questi anche Marco Pucci, amministratore delegato dell’Ast di Terni:
«Sembra il risveglio da un incubo. Ho tirato un sospiro di sollievo», ha
commentato subito dopo la sentenza. E prima della sentenza continuava a
professare la sua innocenza. «Prima o poi verrà riconosciuta - dice -.
Aspetterò il verdetto a casa, con la mia famiglia. E, in ogni caso, non
scapperò: un innocente non fugge». Ma non gli è stata riconosciuta l'innocenza.
Quanto ai due imputati tedeschi la procedura è
leggermente più complessa.
Raffaele Salerno, direttore dello stabilimento Thyssen
al momento della tragedia del 2007, in una intervista a La Stampa protesta la
sua innocenza: “Ma quale responsabilità. Io sono l’ottava vittima di questa
storia. L’ottava. E mia moglie che è qui accanto a me, e che sta lottando
contro il cancro, è la nona. Anche noi siamo vittime. Ma per noi non c’è pietà.
E dire che io non ho fatto nulla di male. Nulla. Questa è tutta una montatura”.
Salerno sostiene di essere dato in pasto ai parenti delle vittime: “Che
vergogna questa storia. Per come è stata gestita dai tribunali”, “sono disgustato”,
dice il manager. “Sono stato consegnato in mano ai parenti di quelle persone
morte e sono stato giudicato da loro. Ecco, hanno consegnato noi dirigenti. Ed
è inevitabile che sia finita così, con questa condanna che mi porterà dritto in
galera”. Una colpa, spiega, “ce l’ho. Quella di avere sempre lavorato dall’età
dei 17 anni. E di essere rimasto in azienda nonostante potessi andare in
pensione”. “Là dentro andava tutto benissimo”, dice a proposito della sicurezza
in azienda. “Io sono stato condannato come se in Italia non ci fossero mai
stati incidenti sul lavoro. Vuole sapere la verità?”. “Hanno preso di mira la
Thyssen e ci hanno fatti a pezzi. La Thyssen era il male”.
I familiari
delle vittime ed il superstite
I parenti dei sette operai morti nel devastante
incendio scoppiato nel dicembre del 2007 si erano raccolti in presidio a Roma
il 24 aprile davanti alla sede della Cassazione con gli striscioni e le foto
dei loro cari: avevano sperato in un esito diverso e, nella notte, furibondi,
hanno fatto sentire le loro proteste «perché gli assassini non sono stati
condannati».
E a Rainews 24 hanno denunciato:«qui con noi ci sono
associazioni come quella delle vittime di Viareggio e da tutta Italia, i
sindacati, la Cgil, ma è vergognoso che non ci siano le istituzioni torinesi.
Bastava ci fosse un loro rappresentante».
Hanno inoltre aggiunto: «La Corte d'appello di Torino
ha rubato il nostro sogno - hanno scritto in un cartello - giustizia per i
nostri figli». In uno striscione sono ritratte le foto degli operai morti nella
«strage». I familiari speravano che i supremi giudici ribaltassero il verdetto
d'appello, che ha notevolmente diminuito le pene inflitte agli imputati. Quella
pronunciata in secondo grado «è una sentenza che dà ragione ai potenti che
hanno torto - si legge in un altro cartello esposto - e torto ai deboli che
hanno ragione».
Dopo la lettura della sentenza alcuni familiari delle
vittime hanno sfogato la loro rabbia, gridando e piangendo, «sono codardi – ha urlato Rosina, la madre di
uno degli operai morti, di fronte all’aula magna della Suprema Corte – non
hanno avuto il coraggio di emettere una sentenza, dire qual è la verità».
"Eravamo speranzosi, ora ci sentiamo sconfitti e
scontenti anche se sapevamo che sarebbe finita così". Rosina Platì, madre
di Giuseppe De Masi, uno dei sette operai morti nel rogo della ThyssenKrupp di
Torino, ha commentato in questi termini la sentenza della Cassazione. Secondo
Rosina Platì, "è stata una sentenza pessima, ci hanno presi in giro".
Ora per i familiari "non resta che attendere la nuova sentenza della Corte
d'Appello. Ci prepareremo. Saranno contenti gli imputati che erano pronti ad
andare in galera e invece hanno trovato questa sentenza. Se non fosse per
l'opinione pubblica, che si sarebbe rivoltata contro, li avrebbero pure
assolti, ma non hanno avuto quel coraggio...".
Analogo il commento di un'altra familiare, Sabina
Laurino, moglie di una delle sette vittime: "Non avevo dubbi che sarebbe
finita così. Del resto, non è che la condanna degli imputati ci farà mai
riavere i nostri cari. Ma non è vero che la giustizia è uguale per tutti, come
dice la legge. Io non ci credo. Io mi affido a una sola giustizia, quella di
chi sta sopra a tutti noi".
La mamma di Platì accusa: «Ci sentiamo presi in giro:
la legge non è uguale per tutti».
E Susanna
Camusso (Cgil) reputa sbagliato «ridurre la portata delle pene».
Antonio Boccuzzi, l’operaio superstite del
rogo, ora parlamentare eletto nel Pd, ha commentato così: ”Quella della
Cassazione è una sentenza che ci delude perché
non mette la parola fine dopo sei anni e mezzo di processi. Speriamo
che nel nuovo processo di appello le pene vengano riconfermate. Intanto
vorrei capire a fondo la sentenza e tutti aspettiamo le motivazioni della
decisione”
Per quel che riguarda
le dichiarazioni di Salerno sopra riportate,
le reazioni dei familiari delle vittime sono state veementi.
«Dire che siamo allibiti è riduttivo - dichiara Rosina
Demasi, madre di Giuseppe, l’ultimo a morire a soli 26 anni dopo un mese di
agonia - Salerno dice di essere l’ottava vittima e che sua moglie malata di
cancro è la nona? Ma stiamo scherzando? Le vittime a parte i nostri ragazzi,
siamo noi che abbiamo perso per sempre la gioia di poterli abbracciare. Mi
dispiace per sua moglie, ma cosa c’entra la sua malattia con il rogo che ha
bruciato vivi i nostri cari? Io mio figlio l’ho potuto identificare solo
dall’alluce, il resto era tutto carbonizzato».
Rosina così difende
la memoria di Giuseppe. «Salerno non solo è un assassino ma è pure
bugiardo. Prima ci accusa di essere stati interessati ai soldi del risarcimento
e ora ci viene a dire che in realtà lui si riferiva alla costituzione di parte
civile di Comune, Provincia e Regione. Non ci credo, ce l’ha sempre avuta con
noi. A parte che i soldi ci spettavano di diritto, io neppure li volevo. Volevo
solo che i colpevoli andassero in carcere. E infatti quei soldi sono in banca e
neppure li tocco. Continuo a fare l’infermiera e continuo a vivere nella casa
di periferia dove ho sempre vissuto. L’unica cosa bella della mia casa sono le
pareti ricoperte dalle foto poster del mio Giuseppe».
Per questa mamma ogni parola pronunciata dall’ex
responsabile della sede Thyssen torinese è un distillato di veleno. «Non ci ha
mai chiesto scusa o perdono. Mai. Sostiene di non essere venuto a casa nostra a
farci le condoglianze perché temeva che gli sputassimo. Bugiardo! Marco Pucci
(nel comitato esecutivo dell’acciaieria, in appello condannato a 7 anni, ndr)
era venuto a casa nostra subito dopo la tragedia. E nessuno gli ha sputato in
faccia!».
Neppure il fatto che Raffaele Salerno abbia assicurato
di pregare ogni giorno per i sette operai scomparsi, lenisce la ferita di
Rosina. «Prega perché sa benissimo che neppure Dio lo può perdonare per quello
che ha fatto. Se avesse voluto veramente bene ai ragazzi avrebbe garantito la
sicurezza sul lavoro e invece se n’è lavato le mani».
Un’altra madre - quella di Rosario Rodinò, anche lui
ustionato a morte a soli 26 anni – dice: «Salerno cita la moglie malata -
ribadisce Graziella Rodinò - e io cosa dovrei dire? Sua moglie ha il cancro,
mio marito il 13 dicembre scorso è morto di crepacuore. Dopo la fine di Rosario
non si è mai più ripreso, è andato in depressione e ultimamente non voleva più
uscire nemmeno per andare a trovare nostro figlio al cimitero. Mio marito sì
che è l’ottava vittima della Thyssen non Salerno o sua moglie. La mia casa è
vuota, senza più Rosario e mio marito. Sì, ho altre due figlie e i nipotini, ma
non potrò mai avere i nipotini di Rosario. Mai e poi mai».
E poi c’è tutta la sofferenza di tre bambini che
chiedono continuamente del loro padre, Antonio Schiavone, morto a 36 anni. «I
miei figli, 6, 10 e 13 anni, sono vittime indirette della strage di quella
notte - dice la moglie Tina -, non certo Salerno. Farebbe meglio a stare zitto
perché lui che dirigeva lo stabilimento in condizioni di totale mancanza di
sicurezza, ha più responsabilità di altri».
La Tragedia
La tragedia avvenne nell'acciaieria di Torino, sulla
linea 5 della fabbrica di corso Regina Margherita, nella notte del 6 dicembre
2007. Giuseppe Demasi, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Antonio Schiavone, Rocco
Marzo, Angelo Laurino e Roberto Scola morirono a causa delle ustioni provocate
da un'enorme fiammata divampata all'improvviso che li bruciò fino a ucciderli
dopo ore e giorni di agonia in ospedale. L'unico superstite è Antonio Boccuzzi,
oggi parlamentare del Pd, assai attivo alla Camera dei Deputati per quanto
riguarda la materia della sicurezza sul lavoro.
Il processo
di primo grado
I magistrati di primo grado avevano inflitto pesanti
condanne sottolineando la “sciagurata scelta” dell’A.D. di “azzerare ogni
intervento di prevenzione”. Era stata la procura di Torino a chiedere che
venisse condannato per omicidio volontario, con la formula del dolo eventuale,
l’ex amministratore delegato della multinazionale dell’acciaio Harald
Espenhahn.
La sentenza
di primo grado arrivò
nella tarda serata del 15 aprile 2011. Il dibattimento si era aperto il 15
gennaio del 2009, poco più di un anno dopo la tragedia. Un procedimento di
quasi cento udienze, nuovi protocolli di indagine in materia di infortuni sul
lavoro, un’attenzione mediatica inusuale, un processo che resterà nella storia
del Paese per essere stato il primo processo per morti sul lavoro con richieste
di pene così alte, in relazione all’eccezionalità dei reati contestati ai sei
imputati chiamati a rispondere del rogo.
La corte presieduta da Maria Iannibelli aveva
condannato l’amministratore delegato Harald Espenhahn a 16 anni e mezzo di
carcere per omicidio volontario con dolo eventuale. Espenhahn avrebbe “omesso
qualsiasi intervento di ‘fire prevention’ nello stabilimento”.
Una
sentenza
storica per i morti sul lavoro.
I dirigenti Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Raffaele
Salerno e Cosimo Cafueri erano stati condannati a 13 anni e mezzo di carcere
mentre Daniele Moroni a 10 anni e 10 mesi di reclusione. Le parti civili avevano avuto risarcimenti
per un totale di circa 17 milioni di euro, di cui quasi 13 milioni ai
famigliari delle vittime.
La società Thyssen è stata a sua volta
sanzionata con la condanna a pagare un
milione di euro, per colpa organizzativa derivante dalla responsabilità
amministrativa d'impresa di cui al D.Lgs. n. 231/2001, a una confisca
di 800mila euro, all'esclusione da agevolazioni e finanziamenti pubblici per 6
mesi.
Il processo
di secondo grado, l'appello
Ma il processo di secondo grado ha modificato il primo
verdetto. L’appello si è aperto il 28 novembre 2012 e il 28 febbraio 2013 la
corte d’assise d’appello di Torino ha ridotto le pene ai sei imputati ed
escluso il dolo riconosciuto in primo grado per l’amministratore delegato.
I giudici d'appello non ravvisarono l'omicidio
volontario con dolo eventuale per l'Amministratore delegato, bensì quello
colposo aggravato dalla colpa cosciente.
Per la Corte d’Assise di Torino, “
Espenhahn era perfettamente informato e pienamente consapevole del
processo di lavorazione sulla linea 5”. I giudici hanno riconosciuto anche
due attenuanti a favore di Espenhahn. La prima è rappresentata dagli indennizzi
ai familiari degli operai deceduti e la seconda di aver ammesso la propria
colpevolezza in merito alla “
decisione di
non effettuare alcun intervento di fire prevention”.
Il datore di lavoro, secondo i giudici, era
consapevole del fatto che un intervento simile andava effettuato sulla linea 5
e sulle modalità di lavoro messe in atto su quel tratto, del combustibile e
delle sorgenti di innesco sulla stessa linea 5, spesso soggetta a incendi di
diversa entità. Espenhann pensava che su quella linea non potesse avvenire un
incidente di grossa portata e che, seppure fosse accaduto, sarebbe stato domato
attraverso l’impianto antincendio e grazie alla capacità degli operai di tenere
sotto controllo la situazione, qualora si fosse presentata.
I giudici torinesi avevano quindi condannato a 10 anni
di reclusione l’ex amministratore delegato Harald Espehnhan (che in primo grado
era stato giudicato per la prima volta in Italia colpevole di omicidio volontario con dolo
eventuale con una pena di 16 anni e mezzo di reclusione, ma in appello però,
appunto, non fu riconosciuto l'omicidio volontario con dolo eventuale, ma
l'omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente). Mentre le altre pene erano
state: 8 anni all'allora responsabile del servizio prevenzione e protezione, il
quadro intermedio Cosimo Cafueri [ritenuto “dirigente di fatto” per i compiti
organizzativo-operativi e decisionali svolti]; 8 anni e mezzo al responsabile
dello stabilimento Raffaele Salerno; 7 anni ciascuno ai membri del Comitato
esecutivo Gerald Priegnitz e Marco Pucci.
Infine a Daniele Moroni, dirigente con funzioni di
direttore e competenza negli investimenti
, la corte d’assise d’appello presieduta dal giudice Giangiacomo
Sandrelli aveva inflitto una condanna a 9 anni.
A luglio poi Guariniello, insieme ai pm Laura Longo e
Francesca Traverso e al pg Ennio Tomaselli, ha presentato ricorso in Cassazione
contro la sentenza d’appello, come hanno fatto anche, con altre motivazioni, le
difese degli imputati.
Una vicenda giudiziaria complessa, iniziata con una
condanna in primo grado per omicidio volontario e proseguita in appello con gli
sconti di pena che hanno cancellato quell’ipotesi di accusa - omicidio
volontario con dolo eventuale - che poteva rivoluzionare la giurisprudenza
sulle morti sul lavoro.
Raffaele
Guariniello –
coordinatore del pool di magistrati della Procura di Torino – afferma che la
sentenza accoglie l’impianto accusatorio allestito dal pool, e “
condanna tutti gli imputati, condanna la
società come ente in base alla responsabilità amministrativa, mette in luce la
riconducibilità di questa tragedia alle scelte strategiche di fondo, cioè alla
politica della sicurezza dell’azienda. Quindi costituisce un grande ammonimento
per tutte le imprese”.
Il quesito
sul dolo eventuale
Il collegio delle sezioni unite presieduto dal primo
presidente della Suprema Corte Giorgio Santacroce era chiamato a dirimere
questo principio di diritto: «
Se la
irragionevolezza del convincimento prognostico dell'agente circa la non verificazione
dell'evento comporti la qualificazione giuridica dell'elemento psicologico del
delitto in termini di dolo eventuale».
E se resta ancora aperta, dunque, una vicenda tragica
e dolorosa che ha colpito nel suo profondo il mondo del lavoro (e Torino), sembra
chiudersi l’accesa battaglia giuridica sulla configurazione del reato: per la
prima volta, infatti, era stato contestato l’omicidio volontario in un caso di
infortunio mortale sul lavoro. Una tesi accolta dai giudici di primo grado,
autori di una sentenza coraggiosa e assolutamente innovativa, ma negata da
quelli di Appello, secondo i quali si è trattato “solo” di un omicidio colposo
aggravato dalla colpa cosciente, sanzionato peraltro con condanne tra le più
pesanti mai irrogate. E’ proprio per ridefinire il trattamento sanzionatorio
che la Cassazione, confermando peraltro l’ipotesi di omicidio colposo ed
escludendo l’aggravante delle omissioni dolose di cautele sugli infortuni, ha
ordinato un nuovo dibattimento.
Le richieste
della Procura Generale
«Grandissima sconsideratezza» nella gestione dello
stabilimento Thyssen di Torino, ma non ci fu omicidio volontario. Lo ha
sostenuto il procuratore generale della Cassazione, Carlo Destro, che ha
chiesto al processo Thyssen in Cassazione la conferma delle condanne, emesse
dalla corte d'assise d'appello di Torino nel febbraio 2013 per l'ex a.d. della
multinazionale dell'acciaio, Herald Espehnhan e 5 manager.
Il pg aveva però escluso che si fosse trattato di
omicidio volontario.
È vero che l’attività della filiale piemontese della
Thyssenkrupp, in
quegli ultimi mesi prima della smobilitazione e del trasferimento a Terni, fu
caratterizzata da «grandissima sconsideratezza». «Si volle continuare a
produrre - ha detto - senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando quanto
più possibile in vista dello smantellamento dell’impianto che sarebbe dovuto
avvenire nel febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo».
Ma è altrettanto vero, secondo il magistrato, che «i
manager e i dirigenti chiamati a vario titolo a rispondere della morte dei sette operai facevano affidamento sulla
capacità dei lavoratori di bloccare gli incendi che quasi quotidianamente si
verificavano nell’acciaieria, e chi agisce nella speranza di evitare qualcosa,
se quel qualcosa si verifica, non può averlo voluto». Secondo il pg non si può
parlare di omicidio volontario. ''La Procura -ha detto Destro- avrebbe dovuto
adottare la stessa imputazione per tutti gli imputati''.
Tuttavia c’è stata una “grandissima sconsideratezza”
nella gestione dello stabilimento della Thyssenkrupp di Torino dove “si è
voluto continuare a produrre senza adeguate misure di sicurezza ma risparmiando
quanto più possibile in vista dello smantellamento dell’impianto che sarebbe
dovuto avvenire nel febbraio 2008, due mesi dopo il tragico rogo”.
Destro, per contro, aveva criticato la sentenza di
primo grado che aveva affermato per l’ad Espenhahn la tesi dell’omicidio
volontario con dolo eventuale: in quel verdetto, aveva sostenuto, “manca un
raccordo tra le varie imputazioni”, venendo cosi in pratica incontro alla
difesa dei dirigenti Thyssenkrupp, per i quali l’unico vero obbiettivo era
eliminare dal processo l’omicidio volontario.
Per applicare il dolo eventuale “
occorre
la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica
categoria di evento che si è verificata. A tal fine è richiesto al giudice di
cogliere e valutare analiticamente le caratteristiche della fattispecie, le
peculiarità del fatto, lo sviluppo della condotta illecita al fine di
ricostruire l’iter del processo decisionale”.
Secondo il pg Destro, inoltre, la sentenza di merito
ha fornito ''motivazioni corrette e congrue'' nel dire no alle attenuanti
generiche e ha bollato come ''del tutto gratuita'' la tesi avanzata da alcuni
difensori sul fatto che per alcuni imputati la pena sarebbe stata calcolata in
maniera superiore al dovuto.
Destro ha perciò chiesto alle Sezioni unite penali
della Suprema Corte, di respingere non solo il ricorso degli imputati ma anche
quello della Procura di Torino contrario alla riduzione delle pene irrogate in
appello ai manager responsabili del rogo del 2007 a Torino nel quale morirono
sette operai della Thyssenkrupp.
Una gestione, quella dello stabilimento di Torino,
«senza adeguate misure di sicurezza» al risparmio, in vista dell'imminente
chiusura, che sarebbe dovuta avvenire due mesi dopo il tragico rogo del
dicembre 2007 in cui persero la vita 7 operai, ha detto il Pg Destro nella
requisitoria davanti alle sezioni unite. Ma in sostanza l'A.D. agì nella
speranza di evitare incidenti e quindi non può aver voluto la morte dei 7
giovani.
Destro, per contro, aveva criticato la sentenza di
primo grado che aveva affermato per l'ad Espenhahn la tesi dell'omicio
volontario con dolo eventuale: in quel verdetto, aveva sostenuto, "manca
un raccordo tra le varie imputazioni": "la procura è entrata in
contraddizione qualificando con diverse imputazioni lo stesso fatto". Il
pg aveva anche ricordato come il nodo giurisprudenziale del dolo eventuale sia
emerso, negli ultimi anni, in alcuni processi scaturiti da incidenti stradali,
quale quello a carico di Stefano Lucidi, l'uomo che investì, uccidendoli, due
giovani in via Nomentana a Roma. "Gli incidenti stradali - aveva detto il
pg - non sono assimilabili alle attività industriali. Inoltre, il fatto che si
parli di introdurre il reato di omicidio stradale è una spia del fatto che è
arduo contestare il dolo eventuale". Si fa anche notare che «qualsiasi
omicidio stradale provocato per violazioni al codice, o errore medico, potrebbe
essere considerato come volontà di uccidere».
I Pubblici
Ministeri di Torino Guariniello, Longo e Traverso
I pm Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca
Traverso hanno sostenuto con fermezza l’omicidio volontario con dolo eventuale,
cioè che l’incendio della Thyssen fosse stata la conseguenza di logiche
economiche di risparmio a scapito della sicurezza. Tesi che il p.g. Ha respinto
con nettezza.
I
motivi per
cui la Procura di Torino ha chiesto l’annullamento della sentenza di appello
sono cinque: due riguardano la questione del dolo e un terzo quella che viene
definita la «disparità» nel trattamento sanzionatorio (la quantificazione delle
pene) nei confronti degli imputati.
Gli ultimi due si riferiscono a questione di natura
giuridica: in particolare i magistrati lamentano il fatto che i giudici di
secondo grado hanno applicato «il concorso formale» e hanno ritenuto che il
reato di incendio sia «assorbito» da quello di omissione di cautele contro gli
incidenti.
Il procuratore Guariniello ci tiene comunque a sottolineare
che sei anni e mezzo per non avere ancora una sentenza sono troppi: "
Noi avevamo chiuso le indagini in soli tre
mesi, ma il nostro era un gruppo di lavoro altamente specializzato. La
giustizia deve essere più rapida altrimenti non appare adeguata. Chi di
dovere, nel Governo, nel Parlamento e in ogni altra sede competente, ne prenda
coscienza".
La difesa
degli imputati
«La sentenza di appello, per quanto riguarda la
ricostruzione dei fatti ha senz'altro retto innanzi al giudizio della
Cassazione che ha respinto il ricorso della Procura di Torino.
La responsabilità degli imputati resta
inquadrata nella cornice definita dal giudizio di secondo grado. Tuttavia
alcune valutazioni dovranno essere rifatte»
così l'avvocato Guglielmo Giordanengo, difensore di Cosimo Cafueri, uno degli
imputati per il rogo della Thyssen, ha commentato la sentenza delle Sezioni
unite della Cassazione.
La difesa aveva messo all’indice la durezza del
verdetto di secondo grado (la pena più alta era per l’ex amministratore delegato
Harald Espenhahn, dieci anni di carcere, mentre le altre spaziavano dai sette
ai nove anni). Nel corso del suo intervento, il
professor Franco Coppi aveva affermato che la Corte d’appello era stata
troppo severa e aveva parlato di «trattamento sanzionatorio pesantissimo»
Sempre l'avvocato Franco Coppi, aveva sostenuto che la
sentenza non è affatto chiara per quanto riguarda la divisione delle
responsabilità sul tema sicurezza, per le quali è stato fatto di tutta l'erba
un fascio.
Durante l’udienza non è stato risparmiato, da parte
degli avvocati difensori, un cenno alla dolorosa polemica sul ruolo giocato
dalle stesse vittime: «quella notte - ha detto Coppi - gli operai erano
impegnati in una discussione fra loro e sono intervenuti in ritardo a spegnere
l’incendio».
Ad avviso di Coppi "in realtà gli imputati non
avevano previsto che sarebbe potuta accadere una cosa del genere. Piccoli
incendi si innescavano tutti i giorni ma veniva facilmente controllati. La
colpa vera è quella di non aver previsto tutte le eventualità che sarebbero
potute accadere".
Gli avvocati difensori in attesa delle motivazioni non
si sbilanciano a commentare un dispositivo che ritengono «criptico»
«Adesso la responsabilità degli imputati resta
inquadrata nella cornice definita dal giudizio di secondo grado», osserva
peraltro l’avvocato Guglielmo Giordanengo.
Ora, quindi, le pene per gli imputati dovranno essere
rideterminate, ma gli avvocati difensori non si sbilanciano sulla loro
rideterminazione al rialzo al ribasso. Aspettano di conoscere le motivazioni
della sentenza e giudicano “criptico” il dispositivo emesso stasera.
Il
dispositivo della sentenza Cassazione Penale Sezioni Unite, 24 aprile 2014
Nella ricostruzione dei fatti – letta dal giudice
relatore Rocco Blaiotta – le responsabilità sono chiare.
Si ricorda “
l’inefficienza e l’inidoneità dei meccanismi
di emergenza dello stabilimento a svolgere le loro funzioni”, si indica che “la
situazione dell’impianto era di grave degrado, la pulizia non era accurata
mentre è importante che in strutture di questo tipo sia rimossa la presenza di
materiale infiammabile”. E non si nasconde che dopo l’incidente “
gli ispettori della Asl rilevarono ben 116
violazioni” relative alla sicurezza e che quando gli operai tentarono di
intervenire sulle fiamme “
il primo
estintore risultò non funzionante, venne poi srotolata una manichetta
antincendi ma l’apparato di spegnimento non funzionò per la mancanza di
pressione”, che “
anche l’operazione
di allarme risultò farraginosa e impossibile” e “
i mezzi di soccorso ebbero difficoltà a entrare nello stabilimento”.
Senza dimenticare poi che i lavoratori “
non
avevano ricevuto alcuna formazione professionale per mettersi in salvo dal
rischio del flash fire in una struttura in cui gli incendi erano quotidiani”.
Ed ecco il
dispositivo
del verdetto sulla vicenda Thyssenkrupp emesso dalle Sezioni unite penali
della Cassazione: «
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta
esistenza della circostanza aggravante di cui al capoverso dell’art. 437 Cp ed
al conseguente assorbimento del reato di cui all’articolo 449 Cp».
«La decisione della Cassazione non significa che le
pene debbano essere rimodulate al ribasso. Noi chiederemo un aumento delle
pene»: lo dice il pm di Torino Raffaele Guariniello commentando la sentenza sul
caso Thyssen della Cassazione che ha rinviato alla Corte d'Appello per
ridefinire le pene dei dirigenti condannati per omicidio colposo con colpa
cosciente. «Il considerare il reato di omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche
separato dal reato di disastro - specifica il pm - implica che si possa
chiedere un aumento di pena. Anche se non c'è il dolo eventuale siamo
soddisfatti che sia rimasta la colpa cosciente. L'aspetto negativo è che a
oltre sei anni di distanza dalla tragedia non c'è una sentenza definitiva
nonostante le indagini vennero chiuse in soli tre mesi».
«
Dispone
trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte d’assise d’Appello di Torino
- prosegue il dispositivo degli ermellini -
per
la rideterminazione delle pene in ordine ai reati di cui agli articoli 437,
comma 1, 589, commi 1, 2, 3, 61 n.3, 449 in relazione agli art 423 e 61 n.3 Cp.
Rigetta nel resto i ricorsi del
procuratore generale e degli imputati». «
Rigetta il ricorso della persona giuridica Thyssenkrupp acciai speciali
Terni spa che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna in solido
gli imputati - continua il dispositivo - ed il responsabile civile Thyssenkrupp
acciai speciali Terni spa alla rifusione delle spese sostenute nel presente
giudizio dalla parte civile “Medicina Democratica” che liquida in complessivi
euro 7 mila oltre accessori come per legge». Infine «
visto l’art. 624, comma 2 Cpp dichiara irrevocabili le parti della
sentenza relative alla responsabilità degli imputati in ordine ai reati
sopraindicati».
Dunque il dispositivo si conclude infatti dichiarando
irrevocabili “
il corpore parti della sentenza relative alla responsabilità degli
imputati in ordine al reato” di omicidio colposo.
Restano
invariati i risarcimenti riconosciuti alle vittime e le sanzioni per la responsabilità
amministrativa della Thyssenkrupp che in base al Decreto
Legislativo n. 231 dell’8 giugno 2001 “Disciplina della responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000,
n. 300” era già stata condannata al pagamento della sanzione di 1 milione di
euro, nonché all’esclusione da contributi e sovvenzioni pubbliche per sei mesi,
al divieto di pubblicizzare i prodotti sempre per sei mesi, alla confisca di
800mila euro.
Le
conseguenze della sentenza nel processo d'appello-bis
Le colpe dei sei imputati e dell'azienda sono certe,
assodate, chiarite in via definitiva. Ma le condanne, nel nuovo processo
d'appello, secondo una interpretazione di qualche commentatore, non potranno
essere aumentate: siccome "il ricorso della procura è stato
respinto", bisogna applicare il principio del "
divieto di reformatio in pejus".
Questo significa che i nuovi giudici, nel calcolo
delle condanne, dovranno ritoccare qualcosa qua e là per quanto riguarda i
singoli reati, ma nel tirare le somme non dovranno superare le pene inflitte
nel precedente processo d'appello: in pratica, i 10 anni di carcere per l'ex ad
Harald Espenhahn e le pene variabili fra i 7 e i 9 anni per gli altri 5
dirigenti.
In opposizione a questa tesi, nel Palazzo di Giustizia
di Torino i pm analizzano attentamente le parole del dispositivo ("qui
dice 'rigetta nel resto', non 'rigetta' e basta) e restano della loro idea:
Quindi per la procura, non essendo stato rigettato tout court il ricorso della
Procura stessa non si applica il principio del "divieto di reformatio in
pejus".
Facciamo l'esempio dell'ex ad Harald Espenhahn:
condannato a 10 anni in Appello per omicidio e incendio colposo, aggravato da
colpa cosciente. Con la rimodulazione l'aver omesso dolosamente le cautele, non
essendo più un'aggravante (con pena da 1
a 5 anni), potrebbe essere punito con una pena diminuita. Ma potrebbe aumentare
la pena per l'omicidio plurimo colposo a 4-5 anni, cui aggiungerne 3 per
omissione dolosa di cautele doverose e altri 3 per l'incendio colposo.
Tuttavia deve essere chiaro a tutti che
l'attribuzione delle responsabilità
penali per l'incendio che nel dicembre
del 2007 uccise sette operai sono ormai "passate in giudicato", e
quindi la colpa di tutti gli imputati è stata provata oltre ogni ragionevole
dubbio. Resta solo in sospeso l'esatta quantità della pena, che però non
eviterà il carcere agli imputati, e questa è una delle pochissime volte che ciò
avviene per gli omicidi colposi sul lavoro in Italia.
E gli infortuni sul lavoro hanno «numeri eclatanti»,
dichiarò Rino Pavanello, dovuti soprattutto ai
pochi controlli. Il dato più sensibile riguarda proprio le aziende a rischio di
incidente rilevante (qual'era la Thyssenkrupp di Torino) dove, secondo
Pavanello, «i controlli dovrebbero essere almeno raddoppiati»
Rolando Dubini, avvocato del
Foro di Milano
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