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"Fare sicurezza in azienda: principi manageriali e vera semplificazione"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza
15/05/2014 - Chi scrive ha ripetutamente, e da alcuni anni, la sensazione che
nel fare sicurezza in azienda, ovvero nel operare per migliorare le
condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, stiamo davvero sprecando
una infinità di energie.
Le sprecano, tantissime energie, in primis coloro che in azienda
sono preposti ad occuparsi del tema, secondariamente chi a loro fornisce
consulenza o servizi di supporto in genere, e non ultimi le sprecano
coloro che si occupano di definire regole, linee guida ecc. Sembra quasi
che il proliferare di regole tecniche e organizzative sui temi di
salute e sicurezza sul lavoro, sia di per sé un valore, ovvero
garantisca automaticamente miglioramenti concreti.
È evidente che chi scrive questo articolo ha qualche dubbio in
merito. Però vogliamo subito sgombrare il campo dalla impressione che
questo articolo sia una critica generalizzata alle regole; le buone
prassi, il benchmark in genere sono strumenti fondamentali per il
miglioramento della gestione della sicurezza e della salute e per la
scelta delle migliori prassi per il controllo dei rischi residui.
Detto questo proviamo a fare una analisi della situazione
attuale che possiamo riscontrare nella maggior parte delle aziende che hanno
deciso di avere un comportamento etico e diligente sui temi della salute e
della sicurezza. Ci pare di potere identificare alcune
criticità diffuse:
- gli aspetti di sicurezza e salute sono percepiti come
questioni di pertinenza degli “addetti”, ovvero del Servizio
Prevenzione e Protezione, del Medico Competente e, al più, del Datore di
Lavoro. Tutti gli altri sentono come proprio dovere il rispetto delle regole di
salute e sicurezza vigenti, ma non ritengono loro compito l’essere proattivi;
- per loro parte gli “addetti” sono prima di tutto
focalizzati su tutto quanto opportuno e necessario a non incorrere in
violazioni di legge, ovvero in situazioni nelle quali l’azienda e/o i singoli
mostrano inequivocabilmente di non avere rispettato un requisito legislativo
esplicito e applicabile al contesto di riferimento;
- la valutazione dei rischi spesso non è percepita come
fondamentale strumento di lavoro, quanto piuttosto come adempimento formale che
non deve presentare debolezze tali da fare invocare la “mancata valutazione dei
rischi”. Detto in altri termini la valutazione dei rischi è più intesa come
strumento per la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi, che come
concreto strumento logico / metodologico di lavoro.
Tutto questo è favorito da una serie di
fattori di contorno che spingono nella direzione di cui stiamo
parlando:
- nel nostro Paese la cultura forte della Sicurezza e Salute
sul lavoro, vista in forma legale e non paternalistica, ha origine negli anni
’50 del secolo scorso, con un approccio che si usa definire “comanda e
controlla”. Che porta dietro un corollario: non posso controllare ciò che non
ho comandato;
- dopo 40 anni, a metà degli anni ’90, questo approccio
doveva essere superato tramite il recepimento delle direttive sociali europee
in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ma il nostro Paese nel recepirle
si è guardato bene dallo smantellare il sistema pre – esistente. A nostro
avviso questo ha contribuire a dare molta meno evidenza all’introduzione
dell’unica vera novità: il principio di operare sulla base della valutazione
dei rischi;
- l’equivoco si è protratto negli anni tanto che determinati
rischi sono stati assoggettati a valutazione solo dopo che è stato pubblicato
il corrispondente titolo all’interno del D.Lgs. 626/94;
- il pur egregio lavoro fatto con l’elaborazione del D.Lgs.
81/2008, non ha però dato quella spinta di modernità che ci sarebbe stata se l’apparato
sanzionatorio fosse stato rivisto al fine di sanzionare maggiormente le
deficienze “di sistema” delle aziende, e meno le singole infrazioni. Solo
l’estensione della applicazione dei modelli
organizzativi esimenti ex D.Lgs. 231/2001 ai reati in materia di sicurezza
e salute sul lavoro, e l’articolo 30 del citato D.Lgs. 81/2008, vanno in
direzione diversa, e ben chiara; ma si tratta pur sempre di scelte aziendali a
carattere volontario.
Che la sicurezza e la salute sul lavoro siano spesso gestite
con
spirito burocratico che secondo
i principi del controllo dei rischi e del miglioramento continuo non è,
comunque, questione solo nazionale. Le aziende di molti paesi “evoluti” (Europa,
Nord America ecc.), hanno per loro conto sviluppato sistemi interni di gestione
della sicurezza che costruiscono vere e proprie strutture burocratiche interne
il cui scopo appare essere la protezione del Top Management; queste strutture
quindi accumulano dati e informazioni, ma riescono a dare un vero e concreto
contributo a coloro che operano sul campo? Certamente riescono a fornire un
contributo positivo, ma forse non commisurato alle risorse investite.
E ora immaginatevi una azienda che contemporaneamente
subisca la “burocrazia nazionale” e delle regole corporate imposte dal
management della multinazionale a cui appartiene. Si rischia la paralisi,
oppure l’inutile duplicazione di risorse.
La chiave del
cambiamento
Possiamo auspicare, insieme al presidente di Confindustria
Giorgio Squinzi, una
regulation review,
nel nostro caso focalizzata sui temi della salute e della sicurezza sul lavoro,
ma in attesa di un atto del genere, che troverebbe fortissime resistenze perché
sarebbe erroneamente percepito come una riduzione delle tutele dei lavoratori,
dobbiamo cercare autonomamente di trovare una soluzione che garantisca la
migliore tutela dei lavoratori anche attraverso un uso oculato (cioè efficace
ed efficiente) delle (poche) risorse disponibili. Il “poche” lo aggiungo io
considerando che in un momento di forte impegno per la riduzione dei costi,
determinato dalla così detta crisi, ovvero dalla minore propensione alla spesa
dell’intero mercato, in un momento come questo le aziende ragionano di ridurre
al minimo le risorse destinate a servizi indiretti. Quindi quanto meno non
possiamo immaginare un aumento delle persone impegnate sui temi della tutela
della sicurezza e della salute in azienda.
Quindi, si diceva, diventa una questione di
ottimizzazione dell’impiego delle risorse
esistenti, che a sua volta si trasforma in un
riesame delle vere priorità: cosa è utile per prevenire infortuni e
malattie professionali, e cosa non lo è, o non lo è direttamente e
nell’immediato.
Sulla base di questo ragionamento si può compiere una vera
rivoluzione in relazione al “modo di funzionare” sia del Servizio
Prevenzione e Protezione (in primis), ma anche del management.
Le vere priorità
Suonerà banale quello che vengo a dire, ma tanto vale
precisarlo; mettendo
in ordine le
priorità di una azienda “eticamente sana”, sul tema della sicurezza e della
salute sul lavoro, dovremmo trovare grosso modo un elenco come il seguente:
1. Tutelare nel modo migliore possibile la sicurezza e la
salute delle persone che lavorano nella azienda o per l’azienda;
2. Evitare che, nel malaugurato caso si verificasse un
infortunio o una malattia professionale, la azienda medesima possa esserne
chiamata a risponderne come persona giuridica secondo le previsioni del D.Lgs.
231/2001 e dell’articolo 30 del D.Lgs. 81/2008;
3. Sotto le medesime negative condizioni del punto
precedente, evitare che i soggetti apicali della azienda siano coinvolti per
colpe che oggettivamente non li riguardano;
4. Garantire che sul tema della sicurezza e della salute sul
lavoro, siano rispettate tutte le leggi e norme applicabili alla azienda; così
facendo evitare anche che alla azienda siano comminate prescrizioni o altre
sanzioni per il mancato rispetto dei requisiti di legge.
Chi scrive è convinto di essere nel giusto, ovvero che
questa sequenza di obiettivi ordinati per importanza sia quella più corretta
dal punto di vista dell’imprenditore attento alla sicurezza e alla salute dei
propri collaboratori.
Dalle priorità alla
pratica
Considerando il primo punto sopra espresso, è evidente che
se opero in un contesto che può essere reso sicuro in modo tecnicamente
“invalicabile”, fatto ciò la questione si chiude per tutti i primi tre punti;
le responsabilità
amministrative della azienda, e penali dei soggetti apicali, non possono
sussistere se non si manifesta un evento negativo, un infortunio o una malattia
professionale. L’unico aspetto che non si risolverebbe sarebbe quello della
mera conformità, che è poi una questione esclusivamente di denaro. Direi che è
un ragionamento banale.
È meno banale quello che segue: consideriamo una normale
azienda produttiva e domandiamoci se esistono davvero casi nei quali si possa
eliminare totalmente la possibilità di accadimento di un infortunio o di una
malattia professionale. Nelle aziende industriali ciò non è possibile: sussiste
un rischio (residuo) più o meno alto di infortunio o di malattia professionale
che deve essere tenuto sotto controllo con l’organizzazione aziendale e i comportamenti
sicuri.
In questo scenario il secondo e il terzo obiettivo si
raggiungono tramite la implementazione di una buona organizzazione della
sicurezza & salute in azienda, che effettivamente sia in grado di operare
per ridurre al minimo i rischi e controllare i rischi residui nel migliore dei
modi. Se questo requisito pratico viene raggiunto diventa immediatamente facile
dimostrare all’esterno di avere quel modello
organizzativo esimente ex D.Lgs. 231/2001 che consente di evitare
responsabilità per l’azienda e per gli apicali. Per il semplice motivo che si
dimostrerebbe che l’azienda e gli apicali hanno davvero fatto tutto quanto era
in loro potere per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Fine prima parte. Il
seguito dell’articolo verrà pubblicato la prossima settimana.
Alessandro Mazzeranghi
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