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"Organizzazione, nuovi rischi da lavoro e malattie professionali"
fonte www.puntosicuro.it / Salute
03/09/2014 - Un breve saggio,
pubblicato nell’aprile scorso da Olympus (Osservatorio per il monitoraggio permanente della
legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro), affronta la
tematica delle malattie professionali a
partire dall’esperienza giurisprudenziale con riferimento non solo ai
principali problemi interpretativi, ma anche alle interrelazioni che si
instaurano con la fase dell’accertamento amministrativo.
A parlarne è il Working Paper “
Il giudice e l’Inail nell’applicazione
delle norme sulle malattie professionali” a cura di Mario Cerbone,
ricercatore di Diritto del lavoro nell’ Università degli Studi del Sannio.
Il documento articola il discorso
in
due parti.
Nella prima parte si tenta di
ricostruire sistematicamente la nozione di “ malattia
professionale”, tenendo conto sia “dell’apporto giurisprudenziale, sia di
quello amministrativo, proveniente, in particolare, da alcune importanti
Circolari dell’Inail”.
Nella seconda parte dello scritto
ci si concentra, invece, sui “
nuovi
rischi” da lavoro, “in un’accezione ambivalente, e cioè riferita: sia ai
fattori che incidono sulla persona del lavoratore, prevalentemente nella sua
dimensione psicologica e nella sua sfera morale, sia ai nuovi profili di
rischio individuati in relazione ai sistemi di organizzazione del lavoro ed al
loro processo evolutivo”.
E scopo dell’indagine è quello di
verificare “se, ed in quale misura, l’ordinamento è in grado di assicurare,
dinamicamente, forme appropriate di tutela (non solo dell’integrità fisica, ma
anche) della ‘personalità morale’ dei prestatori di lavoro (ex art. 2087
c.c.)”.
Rimandando ad una lettura
integrale dell’interessante documento, noi ci soffermiamo brevemente sul
rapporto tra
nuovi rischi da lavoro e
malattie professionali da c.d. “costrittività organizzativa” (insieme delle
condizioni di rischio che si creano per incongruenze del processo
organizzativo).
Infatti il tema delle malattie
professionali “subisce un’inevitabile complicazione interpretativa se ci si
interroga sulla possibilità di ricondurre all’interno della prevista tutela
assicurativa i disturbi di natura psichica, se ed in quanto causati da
specifiche e particolari condizioni dell’attività e dell’organizzazione del
lavoro. Si tratta di un quesito sempre più pressante nella realtà lavorativa,
anche per le evidenti interrelazioni con il fenomeno del mobbing”,
fenomeno “normativamente ancora bisognoso di supporto, ma dal punto di vista
giurisprudenziale molto vivo”.
L’autore ricorda che la
l. n. 183/2010, nel modificare il testo
dell’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, ha stabilito che le pubbliche
amministrazioni ‘
… garantiscono un
ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e si impegnano a
rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al
proprio interno” (art. 21 − Misure atte a garantire pari opportunità,
benessere di chi lavora e assenza di discriminazioni nelle amministrazioni
pubbliche). E indica che con l’emanazione della circolare INAIL del 17 dicembre 2003, n. 71, avente
ad oggetto “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro.
Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione
delle pratiche”, l’Inail “aveva introdotto un allargamento semantico del
concetto di
rischio tecnopatico
assicurativamente rilevante, tale da ricomprendervi, a suo parere,
non solo quello collegato alla nocività
delle lavorazioni, tabellate e non, ma anche quello riconducibile a particolari
condizioni dell’attività e dell’organizzazione aziendale”.
Tuttavia, siffatto allargamento –
continua l’autore – “non ha superato il vaglio della giurisprudenza
amministrativa. Il superamento del c.d. sistema tabellare, a favore di un
‘sistema misto’ - secondo i giudici amministrativi - non ha infatti scalfito il
principio del ‘rischio professionale’ identificato in relazione allo
svolgimento dell’attività lavorativa”.
Con riferimento alla sentenza del
T.A.R. Lazio, 4 luglio 2005, n. 5454 e alla sentenza del Consiglio di Stato
(17 marzo 2009, n. 1576), “la tutela assicurativa continua a riferirsi (sempre
e soltanto) a quelle malattie contratte nell’esercizio delle lavorazioni,
specificate nelle tabelle o diverse da quelle comprese nelle tabelle, ma sempre
che si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro.
Conseguentemente, è possibile riconoscere la tutela in casi di disturbi
psichici provocati dallo stress, laddove quest’ultimo si ricolleghi
causalmente alle concrete modalità di svolgimento della lavorazione; non
altrettanto si potrebbe fare per quelle manifestazioni non legate alle
caratteristiche della lavorazione, ma piuttosto conseguenti al comportamento
del datore di lavoro che assume comportamenti vessatori nei confronti del
lavoratore”.
Tuttavia l’iter logico-giuridico
seguito dai giudici amministrativi “non mette a fuoco una
distinzione funzionale, che si rintraccia nel quadro normativo
vigente e che invece potrebbe assumere grande importanza ai fini dell’indagine
sul rischio professionale: la distinzione tra piano dell’accertamento
amministrativo, demandato all’ente in caso di denuncia della malattia
professionale, e piano dell’eventuale accertamento giudiziario, in caso di
controversia tra l’assicurato e l’Istituto”.
Rimandando al saggio per l’approfondimento
delle conseguenze di tale distinzione, andiamo direttamente alle
conclusioni dell’autore.
Si indica che “la capacità del
sistema normativo di contenere, al suo interno, le numerose spinte di tutela
che l’organizzazione del lavoro produce resta, a tutti gli effetti, una
questione aperta. È evidente che l’ampiezza del fenomeno sicurezza del
lavoro/malattia professionale” - ancorato tuttora saldamente sull’art. 2087
c.c. – “richieda di per sé costantemente un allargamento delle sedi di
protezione dei prestatori di lavoro ed un’armonizzazione dei vari sistemi di
protezione” (un esempio di combinazione virtuosa delle tutele è stato “fornito
dall’interrelazione tra controllo amministrativo dell’Inail e controllo
giudiziario, a proposito dei casi di ipoacusie non tabellate”).
Al di là di questi esempi
“virtuosi”, per evitare il rischio di lasciare fuori dalla portata giudiziaria
numerose questioni riguardanti la sicurezza del lavoro – specie quando essa è
declinata nei termini di ‘benessere organizzativo’ – “la centralità del
controllo giudiziale deve soddisfare due condizioni, ambedue necessarie: da un
lato, deve continuare ad alimentarsi di una relazione fortemente
‘collaborativa’ con l’Inail; dall’altro lato, non può essere disgiunta da altri
fattori di protezione/prevenzione dei rischi lavorativi, che, al momento, però
paiono ancora troppo deboli e scarsamente effettivi”.
Questa seconda condizione può
essere soddisfatta per il tramite di alcuni “percorsi reticolari”. In primo
luogo “occorre affiancare al controllo giudiziale l’insieme delle tecniche e
tecnicalità di prevenzione, a cui pure il d.lgs. n. 81/2008 dedica attenzione”;
in secondo luogo “non può che essere rafforzata la scelta di garantire un
approccio integrato alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di
lavoro, con specifico riferimento al ruolo della contrattazione
collettiva. La fonte contrattuale collettiva potrebbe infatti “occupare lo
spazio regolativo (in parte ancora inesplorato) che si profila proprio per la
prevenzione dei ‘nuovi rischi’, a condizione però che, dal lato sindacale, si
superino, una volta per tutte, quelle commistioni e ambiguità del ruolo delle
rappresentanze sindacali, che troppo spesso hanno connotato in negativo la
medesima azione preventiva”.
Olympus - Osservatorio per il
monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del
lavoro, “ Il giudice e l’Inail nell’applicazione delle norme sulle
malattie professionali”, a cura di Mario Cerbone, ricercatore di Diritto
del lavoro nell’Università degli Studi del Sannio, Working Paper di Olympus 32/2014
(formato PDF, 283 kB).
Tiziano Menduto
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