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"Semplificazione in materia di sicurezza: come procedere?"
fonte www.puntosicuro.it / Normativa
20/11/2014 - Su queste
pagine alcuni giorni orsono si osservava (giustamente) come si voglia
attribuire al governo una delega in materia di
sicurezza e salute sul lavoro che è praticamente una
delega del tutto in bianco, senza né indirizzi né vincoli.
Francamente mi pare un
atteggiamento eccessivo, o forse semplicemente incosciente, o, ancora, dettato
da una combinazione di fretta e incompetenza. Comunque sono preoccupato: se il
tutto si riducesse in un nulla di fatto sarebbe un grosso danno per tutti, se
si dovesse operare con superficialità si rischierebbe una riduzione delle
tutele concrete; è importante che prima dei dettagli si ragioni su quella che
dovrebbe essere la strategia.
La situazione
Come noto i dettati di legge sono
obblighi non negoziabili. Detto questo, se prendiamo il D.Lgs. 81/2008, con i
suoi allegati in gran parte prescrittivi, ci troviamo di fronte a un corpus
estremamente complesso, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello delle
sanzioni che possono conseguire qualora venga rilevata l’inosservanza di una
prescrizione. Da specialista della materia assicuro che in molti casi non è
facile navigare nel decreto, sebbene si debba riconoscere che lo sforzo di
unificazione ha dato consistenti benefici in termini di chiarezza e fruibilità
delle prescrizioni.
Ma questa Europa della burocrazia
tende davvero ad esagerare con lacci e lacciuoli che rendono davvero difficile
l’operare delle aziende continentali, già per loro conto incamminate verso una
lenta agonia o un sostanzioso ridimensionamento. Il fatto che poi noi italiani,
nei vari recepimenti delle direttive (sociali) comunitarie, siamo capaci di
inserire ulteriori complicazioni e pene talvolta spropositate, ebbene questo è
solo un ulteriore problema.
Le aziende che vogliono
sopravvivere all’interno del territorio della Unione Europea devono ridurre i
costi, cioè semplificare i processi di conduzione aziendale, ridurre le persone
impiegate, eliminare gli impianti obsoleti ecc. Evidentemente un eccesso di
prescrizioni e di adempimenti spinge in direzione opposta e non fa che
alimentare il processo di deindustrializzazione. Senza che nessun cittadino
europeo abbia scelto la deindustrializzazione nell’ambito di una legittima
elezione politica, o tramite strumenti equivalenti.
Sia la Unione che i singoli stati
dovrebbero quindi riesaminare il mandato che i cittadini hanno dato alla
politica per capire se questa
infinita
crescita della burocrazia risponde davvero al desiderio degli elettori!
In Italia finalmente qualcuno ha
capito in quale ginepraio siano finite le aziende, per colpe derivanti dalla
conduzione della cosa pubblica: ora la politica si propone di rimediare. Ma sarà
così semplice?
Una legge sulla sicurezza e sulla salute sul lavoro: i requisiti in un
mondo ideale
È premessa obbligatoria e
universalmente condivisa, che una tale legge debba garantire un maggior livello
di tutela per i lavoratori, rispetto a quello di cui godono i normali cittadini
nell’espletamento di attività non lavorative. Questo partendo dal presupposto
che il lavoro non è un piacere ma una necessità, e che quindi è giusto che chi
è sul posto di lavoro quanto meno non subisca danni al fisico (e non solo).
Si devono quindi applicare dei
principi di prevenzione (quelli che il D.Lgs. 81/2008 definisce “principi
generali di prevenzione”), che permettano di raggiungere tale obiettivo secondo
un itinerario logico semplice e razionale. E ovviamente, essendo l’azienda,
come entità, quella che deve garantire la maggior tutela dei propri lavoratori,
proprio perché è l’azienda stessa che trae beneficio dal lavoro degli stessi,
l’azienda dovrà darsi una organizzazione funzionale a tale obiettivo.
Organizzazione giustamente delineata dal medesimo decreto che definisce i ruoli
e le responsabilità delle varie figure della organizzazione aziendale, dal
datore di lavoro, al medico
competente, al preposto, al singolo lavoratore, e anche ai vari soggetti
che svolgono comunque funzioni di garanzia a favore della sicurezza e della
salute dei colleghi. Infine il decreto parla anche di strumenti, evidenziando
la assoluta centralità della valutazione dei rischi quale punto di partenza di
ogni attività di miglioramento delle condizioni di sicurezza e salute sul luogo
di lavoro.
Questo insieme è (quasi, detto
solo per prudenza) perfetto! Costituito da tre elementi (che voglio ripetere)
che si integrano perfettamente in un quadro evolutivo bilanciato:
-
Principi
generali
-
Organizzazione
aziendale per sicurezza e salute
-
Strumento
operativo da applicare sempre (la valutazione
dei rischi, che giusto per chiarezza deve essere intesa come valutazione di
tutti i rischi, di quelli normati ma anche di quelli non normati).
Quindi perché parlare di
semplificazione? Perché da qui in poi arrivano le difficoltà.
Quello che non funziona
Se fossimo capaci di misurare e
definire un valore di sicurezza obiettivo per le aziende, insomma il valore di
sicurezza minimo che deve essere assolutamente raggiunto da tutti, avremmo praticamente
finito di scrivere la nostra legge ideale in materia di sicurezza e salute sul
luogo di lavoro, e spetterebbe poi alle aziende operare secondo legge,
raggiungendo come minimo il livello indicato, e dimostrandolo attraverso il
proprio lavoro interno di analisi (che poi sarebbe ancora la valutazione dei
rischi, che altro?).
Ma non ci siamo riusciti, e
diciamo la verità, a livello legislativo nessuno ci ha davvero provato. Non che
sia facile, ci mancherebbe, non vorrei mai dare l’impressione di affermare
questo! Capisco la enorme difficoltà di ragionare in questo modo, che spiega la
scelta fatta dal legislatore (europeo e nazionale) ma non la giustifica!
La scelta è presto detta: non
riuscendo ad esprimere principi generali,
il
legislatore ha scelto di istituire regole per una miriade di casi specifici.
E badate che le regole non sono state dette una volta per tutte nel 2008! Le
regole crescono, si integrano, si modificano nel corso degli anni, in un
contesto di burocratiche ottime intenzioni che però sono assolutamente avulse
dalla concreta realtà industriale. Ovviamente è un approccio che, in primis,
produce quasi per partenogenesi una infinità di regole che risucchiano, ognuna
che sia applicabile, energie alle aziende che sono costrette a verificare di
essere in linea, e che in secundis talvolta genera regole (legislative, quindi
obbligatorie) di fatto inapplicabili. Per fare le regole per l’industria (che è
il settore che più sente il peso concreto e paralizzante della legislazione di
cui stiamo parlando), bisogna conoscere l’industria. Certo le regole non le
possono fare (solo) gli industriali, che avrebbero un bel conflitto di
interessi, ma le devono proporre (quanto meno) persone che sanno come gira una
azienda industriale, altrimenti ogni intervento è un danno.
Cosa e come semplificare?
Credo che il primo punto potrebbe
essere una sana riscrittura del titolo I, che già comprende tutti i punti
importanti, per dare ancora più enfasi a come debbano essere organizzate le
aziende in materia di sicurezza e salute. In particolare si potrebbero
evidenziare e “sponsorizzare” i seguenti aspetti:
- la
centralità
di una organizzazione chiara e definita che distribuisca all’interno della
azienda tutti i compiti (e le responsabilità) necessari per gestire correttamente
e completamente gli aspetti di garanzia della sicurezza e della salute,
- la
necessità di applicare realmente i principi del miglioramento continuo
degli aspetti concreti di prevenzione, e della programmazione e gestione
ordinata del miglioramento stesso,
- l’
importanza
del documento di valutazione dei rischi non come un qualcosa di
obbligatorio da mostrare all’ispettore dell’ASL o al magistrato, ma come
principale strumento di lavoro, sia per innescare il miglioramento della
sicurezza, che per mostrare concretamente quale è l’impegno della azienda su
tale materia.
Agli aspetti chiave definiti dal
titolo I, che non sono collegati ad uno specifico rischio ma a tutti i rischi,
si potrebbero associare le sanzioni; infatti ad avviso di chi scrive più che
sanzionare sulla base della specifica gravità di un determinato rischio per il
quale l’azienda non adotti sufficienti contromisure, sarebbe da sanzionare il
cattivo funzionamento della organizzazione aziendale che ha portato ad omettere
tali contromisure. Si perderebbe quindi il legame con una famiglia di rischio
specifica, ovvero con quelle famiglie che vengono regolamentate nel dettaglio
ai titoli e capi che troviamo dal titolo II in poi.
Ebbene, detto questo, e gli altri
titoli? Gli altri titoli sono una possibile fotografia dello stato dell’arte,
ma non certo l’unica. Quindi è ovvio che i contenuti tecnici del D.Lgs. 81/2008
non devono assolutamente andare persi, ma io ritengo che debbano per la gran
parte essere
gestiti come suggerimenti,
e solo in pochi casi come prescrizioni. Istituendo piuttosto anche in
questo contesto legislativo una sorta di principio di presunzione di
conformità, simile a quello che troviamo nelle direttive di prodotto.
E gli
adempimenti burocratici? Io credo che vadano per la gran parte
eliminati, eventualmente rafforzando il concetto che molte registrazioni
aziendali dovranno essere assoggettate a data certa (perché oggi si applica la
data certa solo alle deleghe
di funzione e alla valutazione dei rischi?), così da avere una
tracciabilità “dimostrabile” della storia aziendale in materia di sicurezza e
salute.
Come garantire la
applicazione della legge?
Gli strumenti esistono già: non
sono certo le prescrizioni e le sanzioni pecuniarie ad esse accessorie che
possono indurre una azienda a cambiare atteggiamento in materia di sicurezza e
salute, quindi ometto di ragionarne in questa sede.
Quindi, dicevo, esistono
due fronti di pene per l’azienda e per le
persone, rispettivamente, che sicuramente elevano il livello di attenzione
delle aziende; si tratta, ovviamente, delle conseguenze che si possono
verificare a carico della azienda (vedi D.Lgs. 231/2001 per i reati di cui
all’articolo 25 septies) e delle persone (vedi codice di procedura penale,
articoli 598 e 590) in caso di infortuni e/o malattie professionali. E queste
pene (tutt’altro che trascurabili) dovrebbero spingere le aziende e le persone
responsabili ad adottare tutte le misure di protezione o controllo dei rischi
ragionevolmente possibili e utili ad abbassare la soglia di rischi ad un
livello che si conviene essere accettabile. Unica pecca, si tratta di pene che
si applicano dopo il fatto dannoso, quindi si potrebbe dire che non hanno forza
preventiva (non sono d’accordo) e forza educativa (che assolutamente manca).
Esiste però un altro istituto,
assai poco usato, che avrebbe assai maggiore peso di qualunque prescrizione: il
sequestro cautelativo di ciò che è
pericoloso, sino a che non si applicano misure che eliminino il pericolo o
riducano il rischio a un livello accettabile. Certo una misura che applicata
con omogeneità sul territorio nazionale, e secondo regole ben chiare a tutti,
avrebbe un grande effetto “educativo” sulle aziende che hanno deciso di non
intraprendere un serio cammino a garanzia della sicurezza e della salute dei
lavoratori.
Come credo si evinca da quanto
detto, mi pare decisamente
inutile che
ad ogni minuscola indicazione tecnica presente nella legge venga associato un
obbligo inderogabile, e ad esso una pena specifica. Le aziende non devono
essere trattate come cani da addestrare, secondo i ben noti concetti
Pavoloviani del comportamentismo! I tempi della contrapposizione pregiudiziale
fra capitale e forza lavoro sono passati da un pezzo, se oggi in azienda non
c’è chiarezza di obiettivi comuni e collaborazione, beh, allora la strada della
chiusura è imboccata, ineluttabilmente imboccata! E della collaborazione un
elemento fondante (la base di tutto) è la tutela della sicurezza e della salute
dei lavoratori da parte della azienda; chi di noi collaborerebbe (veramente)
con un soggetto che se ne frega della nostra sicurezza e della nostra salute?
È un sogno?
Mi viene spontanea questa
domanda: il mio, il nostro, quello di tanti che la pensano come me, è forse un
sogno?
Io rispondo che no, non è un
sogno, questo è il futuro; siamo oggi abbastanza maturi, tutti, imprenditori,
lavoratori, manager, consulenti, medici
del lavoro ecc., per affrontare concretamente una sfida del genere? Non
credo, ma da qualche parte dobbiamo partire, e dobbiamo partire subito perché
la congiuntura internazionale non ci permette di aspettare.
Se la semplificazione sarà
questa, o qualcosa di simile, ci aspettano sfide impegnative, dovremo fare un
salto culturale, ma potremo sopravvivere come paese industriale. Se non faremo
nulla, o se le correzioni saranno solo di facciata, rassegnamoci alla
progressiva deindustrializzazione del nostro paese.
Un auspicio
Grandi nomi dovranno dare
l’impostazione di fondo a questo sforzo
di semplificazione, dettandone la filosofia e i principi fondanti: dalla
politica, in primis il premier Matteo Renzi, alle associazioni imprenditoriali
come Confindustria, prima di tutto tramite il presidente Giorgio Squinzi, alle
forze sindacali in rappresentanza dei lavoratori, a chi effettua il controllo
sulla applicazione della legge nelle aziende.
Ma fatto questo sarebbe
importante che a sviluppare la semplificazione siano soggetti non solo
competenti tecnicamente, ma anche ben a conoscenza delle dinamiche interne alle
aziende. Altrimenti tutte le buone intenzioni potrebbero confluire in
interventi di modifica dell’attuale legislazione, apparentemente perfetti ma
avulsi dalla realtà.
Il paese ha davanti una grande
opportunità e una dura sfida intellettuale: non possiamo che auspicare tutti
che alla fine si ottenga un grande risultato, sia sotto il profilo
dell’aumentata efficienza aziendale, sia sotto quello della concreta tutela
della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Alessandro
Mazzeranghi
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