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"L’individuazione del luogo di lavoro ai fini della prevenzione infortuni"
fonte www.puntosicuro.it / Sentenze
08/06/2015 - Due gli importanti insegnamenti che discendono dalla lettura di questa
lunga e articolata sentenza della Corte di Cassazione e che riguardano l’uno la individuazione di quello che è da
intendersi come ambiente di lavoro e l’altro la corretta applicazione dell’art.
26 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81 e s.m.i. contenente le disposizioni di sicurezza
in caso di appalti e subappalti interni.
In tema di norme antinfortunistiche, ha sostenuto la suprema Corte, per ambiente di lavoro deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nella zona ove sono posti i macchinari e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro.
Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, il concetto di interferenza tra impresa appaltante e impresa appaltatrice, in relazione agli obblighi previsti dal comma 2 dell'art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. non può ridursi, ai fini dell'individuazione delle responsabilità colpose penalmente rilevanti, ai soli contatti rischiosi tra il personale delle due imprese, committente e appaltatrice, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte le attività dirette a prevenirli.
In tema di norme antinfortunistiche, ha sostenuto la suprema Corte, per ambiente di lavoro deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nella zona ove sono posti i macchinari e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro.
Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, il concetto di interferenza tra impresa appaltante e impresa appaltatrice, in relazione agli obblighi previsti dal comma 2 dell'art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. non può ridursi, ai fini dell'individuazione delle responsabilità colpose penalmente rilevanti, ai soli contatti rischiosi tra il personale delle due imprese, committente e appaltatrice, ma deve fare necessario riferimento anche a tutte le attività dirette a prevenirli.
Il
fatto e l’iter giudiziario
Il Tribunale ha
dichiaravo l’amministratore delegato di una società e il direttore dello
stabilimento della società stessa colpevoli, nelle rispettive qualità, del
reato di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro e dall'avere agito nonostante la
previsione dell'evento (art. 61, n. 3, cod. pen.), in relazione alla morte di
un dipendente di una società appaltatrice dei servizi di raccolta e
accatastamento dei filati di lamierino realizzati all'interno dello
stabilimento il quale una sera, durante la pausa per la cena, è stato trovato
privo di vita nel reparto tranceria, accartocciato su se stesso, sul nastro
trasportatore posto sotto delle presse.
Gli imputati sono stati
accusati, tra l'altro, di non aver adottato le misure necessarie per tutelare
l'integrità fisica del lavoratore, non disponendo l'arresto del nastro mobile
durante la pausa dal lavoro per il pasto e non approntando un apposito
sportello controllato da dispositivo elettromeccanico di blocco del motore del
convogliatore delle palette, e di non aver provveduto alla chiusura dell'imboccatura
posteriore delle presse nonostante tale esigenza fosse prevista nel documento
di valutazione dei rischi.
E’ stata
contestata agli stessi, inoltre, la
violazione degli artt. 18 comma 1 lett. h, 26 comma 3 e 37 comma 4 del D. Lgs.
n. 81/2008 per aver omesso di promuovere la cooperazione e il coordinamento tra
la società committente e la società appaltatrice per la redazione di un unico
documento di valutazione
dei rischi e per l'assunzione dei provvedimenti necessari a eliminare o
ridurre i rischi da interferenze nonché per non aver adempiuto agli obblighi di
informazione e formazione dei dipendenti della ditta appaltatrice sui rischi
specifici legati alle attività svolte e all'ambiente di lavoro.
Esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 n. 3
cod. pen. e concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle residue
aggravanti, il Tribunale ha condannato l’amministratore delegato alla pena di
un anno e sei mesi di reclusione e il direttore dello stabilimento a quella di
un anno e quattro mesi di reclusione e ha dichiarato inoltre la società
committente responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art.
25-septies del D. Lgs. 8/6/2001 n. 231 e, conseguentemente, riconosciuta la
riduzione di cui all'art. 12, ha applicata alla stessa la sanzione
amministrativa di € 180.000,00.
La Corte d'appello ha successivamente
riformata parzialmente la decisione del Tribunale in punto di trattamento
sanzionatorio rideterminando le pene, rispettivamente, in un anno e due mesi di
reclusione per l’amministratore delegato e in un anno di reclusione per il
direttore dello stabilimento e riducendo, altresì, la sanzione amministrativa
pecuniaria applicata alla società ad € 130.000,00. La stessa ha ritenuto che
l'ipotesi della caduta accidentale della vittima, avvalorata dalla
ricostruzione del perito, fosse l'unica verosimile, non avendo trovato
riscontro alcuno l'alternativa spiegazione causale proposta dalle difese di un
incidente esterno ascrivibile all'atto volontario di terzi o dello stesso
lavoratore e, esaminando le contestazioni mosse alla ritenuta mancanza di
coordinamento e di adeguata formazione in nesso causale con l'infortunio, ha
rilevato in sintesi che:
- secondo costante indirizzo
giurisprudenziale, in tema di norme antinfortunistiche, per ambiente di lavoro
deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si
sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che
siano autorizzati ad accedere nella zona ove sono posti i macchinari e coloro
che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o
sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro. Nel caso in
esame era risultato che la vittima e gli altri soci della cooperativa potessero
accedere senza limitazioni di sorta al reparto tranceria, non solo durante le
loro mansioni ma anche in tempi diversi e ciò, anzi, era un'abitudine
consolidata;
- il concetto di interferenza tra impresa
appaltante e impresa appaltatrice, in relazione agli obblighi previsti
dall'art. 26 comma 2 del D. Lgs. n. 81/2008, non può ridursi, ai fini
dell'individuazione di responsabilità colpose penalmente rilevanti, ai soli
contatti rischiosi tra il personale delle due imprese, ma deve fare necessario
riferimento anche a tutte le attività dirette a prevenirli;
- che, in punto di fatto, l'impianto
presentasse degli accessi pericolosi, che non escludevano la caduta accidentale
nel nastro trasportatore sottostante le presse era stato peraltro già segnalato
nel documento di valutazione dei rischi nel quale era stato rilevato che
l'imbocco verso il dispositivo di macinazione aveva protezioni insufficienti e
che l'imbocco aveva dei portelli che non erano collegati a nessun dispositivo
elettromeccanico di blocco dei motori oltre ad essere parecchio grande per cui
in caso di perdita di equilibrio o inciampo di un lavoratore in direzione
dell'apertura questi poteva essere trascinato dai nastri trasportatori verso i
meccanismi in moto.
Il
ricorso in Cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza della Corte di Appello
hanno proposto ricorso entrambi gli imputati per mezzo dei rispettivi
difensori. Gli stessi hanno contestata la dinamica dell’accaduto individuata in
uno scivolamento del lavoratore in quanto dalle foto acquisite e dalle
testimonianze rese dai dipendenti della società era emerso che era del tutto
impossibile finire con le gambe sotto le trance e soprattutto che, pure finiti
sotto la trancia, era impossibile un contatto del corpo con le palette del
nastro per cui avevano dedotto che nella sentenza di secondo grado non era
stata data una spiegazione di come il lavoratore della ditta appaltatrice fosse
potuto finire all'interno del nastro trasportatore. Secondo i ricorrenti
inoltre la causa dell'evento non poteva essere individuata in un difetto di
coordinamento, non essendo stato l'incidente occasionato dalla compresenza di
soggetti appartenenti ad organizzazioni differenti e considerato,
conseguentemente, che nessun documento unico di valutazione dei rischi
interferenziali avrebbe mai potuto prevedere quanto accaduto.
Gli stessi hanno contestata, inoltre,
l'affermazione secondo cui il lavoratore infortunato e gli altri soci della
ditta appaltatrice potevano accedere senza limiti di sorta alle zone
pericolose, posto che, nel corso dell'ordinaria lavorazione e durante le pause,
il retro di tutte le trance era reso inaccessibile da una serie di ripari oltre
che dalla presenza di una vera e propria cabina chiusa che inglobava la
macchina e quanto poi al difetto di formazione contestato hanno fatto presente
che nulla ha lasciato immaginare che la vittima non fosse stato avvertito e,
comunque, non fosse in grado di rendersi autonomamente conto dello specifico
potenziale pericolo per chiunque tentasse di accedere al nastro trasportatore
in movimento.
Le
decisioni della Corte di Cassazione
Le motivazioni dei ricorsi sono state ritenute
infondate dalla Corte di Cassazione che li ha pertanto rigettati. La stessa
Corte, in premessa, ha posto in evidenza che le doglianze svolte dai ricorrenti
sono risultate legate ad una serie di censure in punto di fatto e come tali
inammissibili in sede di Cassazione. La ricostruzione alternativa proposta dei
ricorrenti (azione volontaria della stessa vittima o di ignoti terzi ai suoi
danni), ha fatto notare la suprema Corte, non si fonda su elementi di univoco e
cogente significato indiziario, tale da imporsi in termini di oggettiva
evidenza e scardinare il ragionamento probatorio illustrato in sentenza. La
Sez. IV ha rammentato che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso
giustificativo del provvedimento impugnato è, per espressa disposizione
legislativa, rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia
sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti
errori nell'applicazione delle regole della logica, ed esenti da vistose ed
insormontabili incongruenze tra di loro. Al giudice di legittimità è infatti
preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la rilettura degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e
diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti. In caso contrario,
infatti, queste operazioni trasformerebbero la Corte nell'ennesimo giudice del
fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal
legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard
minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare
l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Con riferimento al difetto di coordinamento e
di formazione da parte del committente la suprema Corte ha fatto presente che
la Corte di Appello ha correttamente richiamato l’indirizzo in base al quale “
in tema di violazione di normativa
antinfortunistica in un cantiere edile, per ambiente di lavoro deve intendersi
tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui,
indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad
accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse
all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa,
riposo o sospensione del lavoro” né ha ritenuto che avesse un plausibile
fondamento logico la censura secondo cui il difetto di coordinamento addebitato
agli imputati non avrebbe avuto, nel caso di specie, efficacia causale, non
essendo l'incidente correlabile ad una fase della lavorazione per la quale si
richiedeva la compresenza di lavoratori dipendenti di imprese diverse. Non può dubitarsi,
infatti, ha sostenuto ancora la Sez. IV che la presenza dei dipendenti della
ditta appaltatrice e la loro comprovata accessibilità al reparto tranceria
anche nei momenti di pausa delle lavorazioni valevano ad attivare per il datore
di lavoro/committente gli obblighi prevenzionali specificamente previsti
dall'art. 7 del D. Lgs. n. 626/1994 (ora art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008).
Quanto infine alla ritenuta mancata
informazione e formazione del lavoratore infortunato sui rischi specifici
legati al luogo
di lavoro ed alla affermazione fatta dai ricorrenti secondo cui lo stesso
poteva comunque rendersi conto autonomamente dello specifico potenziale rischio
rappresentato dal pericolo di accedere al nastro trasportatore in movimento, la
Corte suprema ha concluso sostenendo che “
è
appena il caso di rilevare che gli obblighi formativi e informativi dettati
dalle norme prevenzionistiche prescindono ovviamente dalla capacità dei
destinatari di tale attività di provvedere da sé alle necessità di formazione
e, soprattutto, non autorizzano alcuna presunzione al riguardo”.
Gerardo
Porreca
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