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"Sottoprodotto: condizioni e dubbi interpretativi"
fonte www.puntosicuro.it / RIFIUTI
12/04/2016 -
1. Premessa
Nella prima parte del presente articolo ( Sottoprodotto:
le condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006) ci siamo soffermati sulle
singole condizioni dettate dal comma 1 dell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006 (e,
prima ancora, dall’art. 5 della alla direttiva 2008/98/CE), il cui rispetto è
necessario per poter qualificare un residuo di produzione come “sottoprodotto”.
Ora ci occuperemo, invece, di alcuni aspetti particolarmente
problematici - o che, comunque, secondo la nostra esperienza, fanno spesso
nascere, nella pratica, dubbi interpretativi e applicativi - della vigente disciplina
in materia di sottoprodotti. Aspetti sui quali, come vedremo, si è peraltro più
volte pronunciata, anche di recente, la Corte di Cassazione penale.
2.
Sul concetto di «normale pratica industriale» la Corte di Cassazione torna sui
propri passi, ma sarà stata detta l’ultima parola?
Abbiamo anticipato che il concetto di
“normale pratica industriale” appare obiettivamente vago e mutevole, dal
momento che non è definito a livello normativo e varia in ragione anche del
comparto produttivo di riferimento e della presenza o meno di norme tecniche
pertinenti che descrivano gli specifici trattamenti a cui sono “normalmente”
sottoposte le sostanze impiegate come materie prime in determinati cicli
produttivi.
Ciò che la (indubbiamente restrittiva)
giurisprudenza prevalente ha sempre sostenuto al riguardo è che vanno esclusi «
dal
novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del
residuo
diversi da quelli ordinariamente
effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato»,
mentre sono conformi alla “normale pratica industriale” «
quelle operazioni
che l’impresa
normalmente effettua sulla
materia prima che il sottoprodotto va a sostituire» (così,
Corte di
Cassazione penale, 17 aprile 2012, n. 17453).
Non solo, nella stessa sentenza n.
17453/2012 la
Corte ha altresì
osservato che, «
sebbene la delimitazione del concetto di “normale pratica
industriale” non sia agevolata dalla genericità della disposizione, certamente
deve
escludersi che possa
ricomprendere attività comportanti
trasformazioni
radicali del materiale trattato
che
ne stravolgano l'originaria natura. Del resto (…) anche operazioni di minor
impatto sul residuo, che altra dottrina definisce "minimali",
individuabili in operazioni quali la
cernita,
la
vagliatura, la
frantumazione o la
macinazione, ne determinano una modificazione dell'originaria
consistenza» e rientrano di conseguenza nel concetto di “trattamento” di
rifiuti (ossia, in una vera e propria attività di recupero di rifiuti, che, in
quanto tale, deve essere autorizzata).
Il primo (tutto sommato, condivisibile)
insegnamento ricavabile da questo precedente giurisprudenziale è che, per
compiere una valutazione circa la riconducibilità o meno di un determinato
trattamento al concetto di “normale pratica industriale”,
occorre riferirsi essenzialmente al ciclo produttivo dell’
utilizzatore
della sostanza, il quale sceglie - appunto - di immettere nel proprio ciclo
produttivo un sottoprodotto
in alternativa ad una materia prima, per
così dire, “vergine”. Ciò a meno che, naturalmente, il “trattamento”
effettuabile (ed effettuato) su una determinata sostanza presso il ciclo
produttivo
di origine non possa configurarsi (ad esempio, perché è
contemplato come tale dalle BAT) come
parte integrante dello stesso, in
quanto ad esso
funzionale.
Quanto, poi, alla individuazione in concreto
delle
singole “operazioni” che
possono rientrare in questo concetto, è
impossibile fornire una risposta generale, che valga cioè per tutte le sostanze
e per tutti i cicli produttivi di (ri)utilizzo, poiché questo tradirebbe lo
spirito e le finalità della norma (a partire da quella contenuta nella
direttiva del 2008), la cui corretta interpretazione e applicazione non può che
essere rigorosamente ancorata ad un approccio
caso per caso.
È pur vero, peraltro, che appare obiettivamente
difficile far rientrare nella “normale pratica industriale” le operazioni che -
come ha scritto la Suprema Corte - comportino “
trasformazioni radicali” di una sostanza, ossia delle sue
caratteristiche qualitative, e che, secondo l’interpretazione più rigorosa,
sono tali le operazioni che “normalmente” sono considerate attività di recupero
di rifiuti - da intendersi, secondo la definizione contenuta nell’art. 183, d.
lgs. 152/2006, come «
qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di
permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali
che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare
funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto
o nell’economia in generale» - quali, in particolare, la
cernita e la
vagliatura [ [i]].
Sul punto si registra però una recente
“apertura” da parte della stessa Corte di Cassazione penale (
sentenza 6 ottobre 2015, n. 40109), la quale,
dopo avere affermato che «
la “normale
pratica industriale” ricomprende tutti quei trattamenti o interventi
(non di trasformazione o di recupero completo) i quali non incidono o fanno
perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di
qualità ambientale che esso già possiede - come prodotto industriale (all'esito
del processo di lavorazione della materia prima) o come sottoprodotto (fin
dalla sua origine, in quanto residuo produttivo) - ma che si rendono
utili o funzionali per il suo ulteriore e
specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche
in altro luogo e in distinto processo produttivo), sembra ribaltare la propria precedente posizione
(sopra
richiamata) indicando espressamente fra le operazioni riconducibili alla “normale pratica industriale” non soltanto il
lavaggio, l’essiccazione, la macinazione e la frantumazione, ma anche la vagliatura
e, soprattutto, la
selezione e la
cernita.
Se va certamente salutato con favore
l’apprezzabile sforzo della Suprema Corte di comprendere le prassi adottate
presso numerose realtà industriali e di abbandonare un approccio che è apparso
il più delle volte formalistico e tautologico (secondo cui la sottoposizione di
una sostanza ad un trattamento che può costituire
anche - o che può
essere “
assimilabile” a - un’operazione di recupero di rifiuti
comporterebbe “automaticamente” che quella sostanza
debba essere
considerata sempre e comunque un “rifiuto”), riteniamo però doveroso mettere in
guardia gli operatori rispetto alla concreta portata di questa “apertura”. È
probabile, infatti, che questa nuova posizione rimanga isolata o, quanto meno,
che in successive pronunce la Suprema Corte “corregga il tiro”, riavvicinandosi
all’orientamento più restrittivo, che risulta tuttora maggioritario.
Non sembrano comunque più sostenibili, alla
luce anche di quest’ultimo orientamento più permissivo, quelle letture
eccessivamente restrittive del concetto di “normale pratica industriale” che addirittura escludevano anche
trattamenti di carattere unicamente fisico-meccanico - quali la semplice riduzione
volumetrica mediante frantumazione - o operazioni che vi erano invece state
espressamente incluse dalla Commissione UE [ [ii]]
nelle proprie linee-guida sulla direttiva 2008/98/CE (quali, ad esempio, il
lavaggio e l’essiccazione).
Nei paragrafi seguenti risponderemo, sempre
alla luce della posizione assunta dalla giurisprudenza, ad alcuni degli altri
interrogativi che si pongono più frequentemente nella pratica.
3. Può un residuo classificato come “rifiuto” dal produttore diventare
un “sottoprodotto”?
Come già
segnalato, il concetto di
“sottoprodotto” rappresenta (ricorrendone le condizioni) l’unica ”alternativa lecita” alla
classificazione di un residuo di produzione come “non rifiuto”.
Se, però, è lo stesso produttore a
qualificarlo (e a gestirlo) come “rifiuto”, esso non potrà più essere
qualificato (e gestito) come “sottoprodotto”.
A maggior ragione, non potrà essere il
destinatario a - per così dire - “declassificare” a “sottoprodotto” una
determinata sostanza che a costui è stata (giuridicamente) conferita come
“rifiuto”; e ciò anche a prescindere dalle intrinseche caratteristiche
qualitative e merceologiche della sostanza in questione.
Lo ha ribadito la
già menzionata sentenza della
Corte di Cassazione penale n. 40109 del 6
ottobre 2015, affermando che:
·
«
ove
i residui della produzione industriale siano "ab origine"
classificati da chi li produce come rifiuti
, gli stessi devono
ritenersi sottratti alla normativa derogatoria prevista per i sottoprodotti
(…),
in quanto la classificazione operata
dal produttore esprime quella volontà di disfarsi degli stessi idonea a
qualificarli come "rifiuti" in base al citato D.Lgs., art. 183, comma
1, lett. a)»;
· «
la
natura di rifiuto
dei materiali trattati, nel caso in esame,
non poteva essere posta in discussione dal
soggetto che li riceveva una volta che il loro produttore li aveva
classificati come tali».
4. Chi deve provare che sussistono tutte le condizioni per qualificare
una determinata sostanza come
“sottoprodotto”?
Per rispondere a questa domanda è
sufficiente ricordare che la classificazione di un residuo di produzione come
“sottoprodotto” costituisce un’
eccezione rispetto alla sua
qualificazione come “rifiuto”. La conseguenza è che, come in tutti gli altri
casi in cui si
deroga alla disciplina generale sui rifiuti (ad esempio,
con riferimento al “deposito temporaneo” dei rifiuti), grava su colui che
richieda l’applicazione di disposizioni aventi natura derogatoria l’onere di
provare la sussistenza di tutte le condizioni che consentono di avvalersi del
regime di favore.
Nella fattispecie, sono perciò il
“produttore” e l’“utilizzatore” del sottoprodotto a dover dimostrare che
risultano rispettate
tutte le condizioni di cui al citato art. 184-bis,
d. lgs. 152/2006, e non la pubblica accusa a dover dimostrare il contrario.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di
Cassazione penale è sempre stata univoca (cfr., fra le tante, le sentenze 13
aprile 2011, n. 16727, 18 gennaio 2012, nn. 7037 e 7038).
La Suprema Corte è peraltro tornata
sull’argomento anche di recente proprio con riferimento al concetto di
sottoprodotto, ribadendo, con la
sentenza
10 febbraio 2016, n. 5504,
quanto segue: «
ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali,
incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato
materiale sia destinato con
certezza ed
effettività, e non come
mera eventualità, ad un
ulteriore utilizzo.
Questo
perché il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184-bis, definendo come sottoprodotto
qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi "tutte" le condizioni
dettagliatamente indicate nella disposizione normativa (art. 184 bis) alle
lett. a), b), c) e d) - sottrae il regime dei sottoprodotti a quello dei
rifiuti, introducendo una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria
rispetto a quella ordinaria, con la conseguenza che
spetta a colui che
voglia farla valere di fornire la prova della sussistenza di tutte le
condizioni, che dunque devono sussistere congiuntamente, previste per la
sua operatività».
Mara
Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
[[i]
] Ma non mancano altre pronunce della stessa Corte di Cassazione penale
secondo cui anche la semplice
triturazione
andrebbe esclusa dal concetto di “normale pratica industriale”: in un caso che
riguardava la triturazione mediante appositi mulini degli imballaggi in
plastica di ciò che era stato utilizzato ai fini produttivi, sì da ottenere «
rimacinato
di matarozze da rilavorazione industriale» poi ceduto in vendita a terzi,
la Suprema Corte ha affermato che la suddetta attività di triturazione delle
materie plastiche che hanno terminato il proprio ciclo di vita quali imballaggi
fosse da ritenersi a tutti gli effetti un’operazione di recupero di rifiuti
(finalizzata a conferire agli stessi consistenza diversa rispetto al materiale
di partenza sì da consentire il nuovo svolgimento di un ruolo utile), soggetta
in quanto tale all'obbligo di autorizzazione (
Corte di Cassazione penale, sentenza 26 giugno 2012, n. 25203).
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