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"La non corretta elaborazione del documento di valutazione dei rischi"
fonte www.puntosicuro.it / Sentenze
20/06/2016 -
E’ stata messa sostanzialmente in
evidenza dalla Corte di Cassazione in questa sentenza una carenza nella
elaborazione di un documento di valutazione
dei rischi (DVR) riguardante
un pericolo per la sicurezza dei lavoratori presente in azienda per l cui eliminazione o
riduzione al minimo il datore di lavoro non ha provveduto a fornire nel
documento delle indicazioni, pericolo che nella circostanza presa in esame
dalla suprema Corte ha portato all’infortunio di un dipendente mentre era impegnato
nel sistemare in un tornio un grosso cilindro sospeso ad un apparecchio di
sollevamento. Non si può, viene precisato infatti nella sentenza, imporre in un
documento di valutazione dei rischi un divieto in relazione alla presenza di un
pericolo tra l’altro in termini dei tutto generali come l'indicazione di
"non guidare con le mani il carico sospeso" e di "non sostare
sotto i carichi", senza fornire indicazioni e istruzioni alternative circa
le misure da adottare onde eliminare o ridurre al minimo il rischio che conduca
ad un infortunio. Così facendo, infatti, viene sostanzialmente devoluto ai
lavoratori di scegliere la maniera con cui ovviare alle problematiche connesse
al lavoro da svolgere anche perché, non essendo stati messi a disposizione degli
stessi strumenti alternativi, questi decidono semplicemente di contravvenire al
divieto medesimo.
L’evento infortunistico e l’iter giudiziario
La Corte di Appello ha confermata la
sentenza emessa dal Tribunale disponendo la correzione di un errore materiale
contenuto nel dispositivo della sentenza di primo grado. Il Tribunale aveva
dichiarato il datore di lavoro di una società in quanto direttore tecnico di
uno stabilimento esercente la produzione e commercializzazione di cilindri per
uso siderurgico, con delega specifica in materia di igiene e sicurezza sul
lavoro nonché il responsabile dei settore sicurezza ed ecologia presso il
medesimo stabilimento per avere cagionato per colpa ad un lavoratore dipendente
con mansioni di tornitore, lesioni personali gravi consistite nello
schiacciamento del primo dito della mano sinistra con frattura e ferita lacero
contusa con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni pari a giorni
154 e con grado di invalidità riconosciuta dall'Inail pari al 4%. In
particolare il lavoratore, assunto con la mansione di tornitore addetto al
carico e scarico dei cilindri in lavorazione sulle macchine senza aver mai partecipato
a corsi di formazione specifici, durante l'operazione di caricamento di un
rullo di notevoli dimensioni su di un tornio, cercando di orientare il carico
con una mano all'interno del mandrino del tornio stesso (come da prassi in uso
tra gli operatori), si schiacciava il pollice fra il cilindro e una ganascia
del mandrino, in contrasto con le prescrizioni di sicurezza del reparto
torneria, con colpa consistita in negligenza imprudenza imperizia ed inosservanza delle norme
per la prevenzione sugli infortuni del lavoro.
La colpa specifica a carico del direttore
tecnico dello stabilimento è consistita, in particolare, nella violazione dei
seguenti articoli di legge: art. 28 comma 2 lettera b) e d) del D. Lgs n. 81
del 2008, in quanto il documento di valutazione dei rischi non conteneva
l'indicazione delle misure e procedure di prevenzione e di protezione concrete
ed efficaci per le attività di carico e scarico dei cilindri di grosse
dimensioni dalle macchine utensili (se
non, in termini dei tutto generali con l'indicazione di "non guidare con
le mani il carico sospeso" e di "non sostare sotto i carichi") e
non conteneva altresì l'indicazione delle misure idonee a ridurre al minimo i
possibili rischi di investimento dei pesanti carichi sospesi, trattandosi di
attività pericolosa comportante gravi rischi di investimento per gli operatori,
fatto aggravato per aver cagionato al lavoratore le lesioni personali gravi
sopra indicate. Il datore di lavoro è stato condannato, alla pena di mesi 3 di
reclusione, anche se, per un errore materiale nel dispositivo della sentenza
impugnata, è stata indicata quella di mesi 6.
Il ricorso in Cassazione e le motivazioni
Avverso il provvedimento della Corte
di Appello l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio
difensore di fiducia, adducendo varie motivazioni e chiedendo l’annullamento
della sentenza. L’imputato ha fatto osservare in particolare che la sentenza
impugnata avrebbe posto a fondamento della condanna il dato della conoscenza da
parte sua della carenza determinante la condotta del lavoratore e l'evento
lesivo. Tale presunta conoscenza è stata individuata nonostante il soggetto
titolare di apposita delega, inizialmente coimputato nello stesso giudizio, non
avesse mai effettuato la necessaria segnalazione. La sentenza di condanna
avrebbe individuata la sussistenza della sua responsabilità sulla base di due
elementi di fatto e cioè quello di non imposto il divieto agli operai di
guidare il carico con le mani, senza dare istruzioni alternative e quindi di
aver devoluto sostanzialmente agli stessi di scegliere la maniera come ovviare
alle problematiche connesse allo svolgimento del lavoro e quello inoltre di
essere a conoscenza in ogni caso del problema per cui la presenza di un
delegato responsabile, sempre presente e referente dei lavoratori, non avrebbe
inciso sul percorso logico che ha portato all'affermazione della sua
responsabilità.
Il ricorrente ha fatto presente
altresì che l’infortunato aveva detto di aver inserito le mani
nell'intercapedine tra il corpo del cilindro imbracato e le ganasce del tornio,
non limitandosi a toccare il pezzo imbragato, che non era a conoscenza della
problematica e che con la sua saltuaria presenza nello stabilimento non avrebbe
mai potuto sperimentare personalmente l'esistenza di impercettibili
oscillazioni del carico sospeso. Ha sostenuto, altresì, che nel momento in cui
vi è nello stabilimento un delegato effettivamente presente e referente diretto
dei lavoratori, l'osservazione diretta delle eventuali criticità operative non spetta
al datore di lavoro, originario garante, ma al delegato che deve pertanto
essere chiamato a rispondere dell'omessa sorveglianza sulla procedura specifica
di sicurezza.
Le decisioni della Corte di Cassazione
La Corte suprema, con riferimento alle
violazioni contestate all’imputato ha fatto notare che i giudici del gravame di
merito avevano dato conto con motivazione specifica, coerente e logica della
insufficienza e della "singolarità" del divieto imposto dal datore di
lavoro ai dipendenti nel documento di valutazione dei rischi di guidare con le
mani i carichi sospesi non accompagnato da alcuna indicazione in positivo sul
come agire in quella situazione. Ciò era equivalso in sostanza a segnalare il
pericolo senza però spiegare come ci si dovesse comportare per evitarlo
nell'eseguire la lavorazione in argomento.
L’imputato, ha quindi sostenuto la
Sez. IV, “
non poteva non avvedersi ab
initio, nell'imporre quel divieto senza fornire istruzioni alternative, del
fatto che veniva in sostanza devoluto agli stessi lavoratori (come infatti era
avvenuto, secondo le deposizioni rese da quelli sentiti come testi) scegliere
la maniera con cui ovviare alle problematiche connesse al lavoro da svolgere (e
i lavoratori, anche perché non erano stati messi loro a disposizione strumenti
alternativi, avevano semplicemente deciso di contravvenire a quel divieto)”. Il
cambiamento nelle modalità di esecuzione di quella lavorazione del resto avvenuto
anni prima che si verificasse l'infortunio (precedentemente la movimentazione
avveniva ad opera di un gruista che adoperava la pulsantiera, mentre un altro
operaio si occupava di guidare il cilindro nella giusta direzione), per quanto
da mettersi in relazione all'introduzione del telecomando radio, non aveva certo
reso più sicura la lavorazione, posto che spesso (come nel caso di specie) la
stessa veniva posta in essere da un unico operaio, il quale doveva con una mano
azionare il telecomando e con l'altra indirizzare il cilindro verso il mandrino
(e nel contempo occorreva guardare anche in altre direzioni).
Con riferimento poi alla responsabilità
del RSPP, entrambi i giudici
di merito, secondo la suprema Corte, avevano fatto buon governo dei principi
affermati in materia dalla giurisprudenza della Corte medesima secondo cui il
responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un mero ausiliario del
datore di lavoro privo di autonomi poteri decisionali e non è dunque
destinatario degli obblighi dettati dalla legge in materia di prevenzione degli
infortuni sul lavoro e delle sanzioni, penali e amministrative, previste per la
loro violazione. Ciò non esclude peraltro la sua responsabilità penale per
l'infortunio conseguito alla mancata adozione di una misura prevenzionale,
qualora si accerti che lo stesso abbia indotto il datore di lavoro all'emissione,
essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale (per il caso in
esame lo stesso ha riportato condanna per quanto accaduto). Corretta in tal
senso è stata ritenuta, altresì, dalla Sez. IV l'affermazione fatta dai giudici
dei primi gradi di giudizio secondo la quale il datore di lavoro è il primo e
principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e
sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica e che
non si vede per quale ragione chi ricopre una tale posizione, nell’effettuare
la valutazione
dei rischi, non debba
prendere conoscenza di tutte le fasi operative inerenti all'attività
dell'azienda.
L’imputato nel suo ricorso, ha fatto
osservare la suprema Corte, ha chiesta in pratica una rilettura degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione della Corte di Appello e l'adozione
di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione ma un siffatto modo
di procedere non è ritenuto ammissibile perché trasformerebbe la Corte di
legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. Essendo quindi il ricorso
inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza
di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, la Corte di
Cassazione ha in definitiva condannato il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Gerardo Porreca
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