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"Sulla cooperazione e coordinamento fra appaltante e appaltatore"
fonte puntosicuro.it / Normativa
05/03/2012 -
Viene ribadita in questa sentenza la
necessità della cooperazione
e del coordinamento fra ditta appaltante ed impresa appaltatrice nel caso
in cui l’attività di quest’ultima venga svolta nell’ambito dell’azienda della
prima, in applicazione degli obblighi contenuti nell’art. 26 del D. Lgs.
9/4/2008 n. 81, contenente il Testo Unico in materia di salute e di sicurezza
sul lavoro. Il caso sottoposto all’esame della suprema Corte di Cassazione
riguarda questa volta un incidente stradale con esito mortale accaduto all’interno
di uno stabilimento del committente nel corso del quale è rimasto vittima un
dipendente della ditta appaltatrice per
essere stato investito mentre circolava nello stesso utilizzando una bicicletta.
Nella circostanza è stata riscontrata e contestata una carente valutazione del
rischio specifico ed una violazione delle regola cautelari di riferimento sia
da parte della ditta committente alle cui dipendenze operava il lavoratore
infortunato, che della ditta appaltatrice che si sarebbe dovuta attivare e
prendere in considerazione ed adottare le relative misure di prevenzione a
favore dei propri dipendenti addetti
alla manovra dei mezzi di trasporto all’interno dello stabilimento.
Il
fatto
Il delegato per la sicurezza dello stabilimento di una società ed
il legale rappresentante di un’impresa che aveva preso in appalto il servizio
di evacuazione degli scarti di lavorazione, sono stati chiamati a rispondere
del delitto di omicidio colposo commesso, con violazione delle norme sulla
prevenzione degli infortuni sul lavoro, in pregiudizio di un lavoratore dipendente
della società che gestiva lo stabilimento. Con essi per lo stesso delitto è
stato chiamato a rispondere anche un dipendente della ditta appaltatrice.
Era accaduto che il lavoratore infortunato, accortosi al momento
di entrare in un reparto di non avere con sé il casco di protezione, si era
diretto, dopo avere inforcato la propria bicicletta, verso l'immobile
ove si trovavano gli spogliatoti, distante circa 200 metri dal reparto, per
recuperare detto casco. Nel percorrere tale tragitto, attraversando l'ampio
piazzale interno allo stabilimento, il lavoratore è stato investito da un
autocarro, di proprietà della ditta appaltatrice, guidato da un dipendente
della stessa, coimputato, mentre usciva da un capannone dello stabilimento. Nell'incidente,
il lavoratore ha riportato gravi fratture craniche rivelatesi mortali.
Nell'immediatezza, è stato accertato che la bicicletta della
vittima era priva di dispositivi di illuminazione e che il lampeggiante giallo
della porta del capannone dal quale usciva il mezzo che segnalava il movimento
della saracinesca (ad apertura verticale), e quindi l'entrata e l'uscita dei
veicoli, era spento poiché la porta era bloccata in posizione di apertura. Secondo
l'accusa, i tre imputati hanno causato la morte del lavoratore per colpa
consistita in imprudenza, imperizia, negligenza nonché inosservanza delle norme
di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In particolare, al delegato per
la sicurezza dello stabilimento è stato contestato:
-di non avere predisposto, per i pedoni ed i lavoratori in
transito a bordo di biciclette, una distanza di sicurezza tra il loro percorso
e quello dei veicoli a motore;
-di non avere evidenziato il tracciato delle vie di circolazione
in corrispondenza del capannone ove si era verificato l'incidente;
-di non avere segnalato la zona di pericolo e non avere fatto
ricorso alla segnaletica stradale;
-di non avere imposto che le biciclette adoperate dai dipendenti
all'interno dello stabilimento fossero munite di dispositivi di segnalazione
visiva;
-di non avere valutato e fronteggiato il rischio costituito dagli
spostamenti dei lavoratori in bicicletta all'interno del perimetro aziendale.
Allo stesso responsabile della sicurezza è stato inoltre contestato
congiuntamente al legale rappresentante della ditta appaltatrice, di non avere
cooperato all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi
connessi con il contratto di appalto, con riferimento alla mancata
organizzazione degli spostamenti di mezzi e uomini all'interno
dello stabilimento.
I tre imputati, riconosciuti responsabili dal giudice monocratico
del Tribunale, sono stati tutti condannati e precisamente il delegato
responsabile della sicurezza alla pena di un anno di reclusione, il legale
rappresentante della ditta appaltatrice a quella di dieci mesi di reclusione e
l’autista del mezzo alla pena di un anno di reclusione (pene sospese e non
menzione delle condanne) e tutti e tre condannati altresì, in solido, al
risarcimento dei danni patiti dalla parte civile liquidati, in via equitativa,
in 10.000,00 euro mentre nessuna statuizione civile è stata adottata nei
confronti dei familiari della vittima, i quali hanno revocato, nel corso del
giudizio, la costituzione di parte civile. Appellata tale decisione dal
responsabile della sicurezza e dal legale rappresentante della ditta
appaltatrice la Corte d'Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata,
ha ridotto ad otto mesi di reclusione la pena inflitta dal primo giudice al
legale rappresentante della ditta appaltatrice confermando il resto.
Il
ricorso alla Corte di Cassazione e le motivazioni
Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno proposto ricorso
alla Corte di Cassazione, per il tramite dei rispettivi difensori, sia il
responsabile della sicurezza dello stabilimento che il legale rappresentante
della ditta appaltatrice chiedendone l’annullamento. Il responsabile della
sicurezza dello stabilimento, in particolare, ha messo in evidenza che
l'incidente si sarebbe, in realtà, verificato solo per l'eccessiva velocità con
la quale il conducente dell'autocarro, che ben sapeva di dover procedere
"a passo d'uomo", è uscito dal capannone, pur avendo tempestivamente
notato la presenza della bicicletta del lavoratore e che nessuna delle regole
cautelari ritenute omesse dal giudice, avrebbe impedito l'evento, né avrebbe
ridotto il rischio del suo verificarsi. Lo stesso ha fatto presente, altresì,
che nel documento
di valutazione dei rischi erano state previste delle precise regole di
comportamento, idonee a disciplinare il transito degli automezzi e ad evitare
incidenti, tra le quali quella, imposta ai conducenti di veicoli, di percorrere
le strade dello stabilimento alla velocità moderata, di 40 o 20 km orari e
addirittura "a passo d'uomo" nei capannoni ed in caso di scarsa
visibilità ed erano state fornite, altresì, alla ditta appaltatrice informazioni
di sicurezza, con allegata una piantina che illustrava il piano di circolazione
interno, regole, dunque, perfettamente note e certamente idonee, se rispettate,
ad evitare incidenti come quello occorso al lavoratore.
Il rappresentante della ditta appaltatrice, dal canto suo, ha
lamentato la mancata effettuazione di una perizia cinematica nonché il mancato
utilizzo da parte del lavoratore infortunato di un casco protettivo individuando
tale mancanza come causa di per sé sufficiente a determinare l’evento
considerato il punto di impatto fra la vittima e l’autocarro. Ha lamentato,
altresì, che il responsabile dello stabilimento aveva provveduto ad elaborare
un documento di sicurezza che aveva quale unico scopo quello di regolare il
transito dei propri veicoli e non di dettare regole riguardanti la circolazione
delle biciclette, utilizzate solo dai propri dipendenti ed inoltre di non avere
effettuato un’attività di coordinamento.
Le
decisioni della suprema Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto entrambi i ricorsi infondati.
Per quanto riguarda il comportamento del responsabile della sicurezza dello
stabilimento la suprema Corte ha sostenuto che legittimamente i giudici del
merito hanno ritenuto di individuare nella sua condotta gli estremi del delitto
contestato, osservando come, a fronte delle condizioni di rischio in cui si
trovava chiunque transitasse nell'area dello stabilimento, al cui interno
circolavano, oltre ai pedoni, una pluralità di mezzi, dai veicoli di trasporto
del materiale alle biciclette, utilizzate comunemente dai lavoratori per i loro
spostamenti interni, non fosse egualmente e tempestivamente intervenuto per
eliminare le fonti di rischio.
Era stato accertato, infatti, che “
la pluralità di mezzi pesanti che circolavano nell'area dello
stabilimento, transitando in entrambi i sensi di marcia, e la presenza di
lavoratori che, a piedi o in bicicletta, si muovevano liberamente nella stessa
area - gli uni e gli altri senza seguire percorsi prestabiliti ed obbligatori
che avrebbero, quantomeno, consentito di ridurre il pericolo di incidenti -
avrebbero dovuto indurre l'imputato ad intervenire per disciplinare più adeguatamente
tale transito (reso, peraltro, difficoltoso anche dalle sconnessioni del
terreno e dalla presenza di binari), in realtà sostanzialmente affidato alla
prudenza ed al buon senso di ciascuno, e per obbligare ognuno al rispetto delle
regole imposte”. La Sez. IV non ha escluso altresì “
l'obbligo di quanti circolavano di mantenere in efficienza i rispettivi
veicoli, le cui approssimative condizioni di manutenzione sono state pure
segnalate dai giudici del merito, laddove essi hanno ricordato che gran parte
delle biciclette in circolazione, compresa quella utilizzata dal (lavoratore
), erano prive di dispositivi di
illuminazione e di catarifrangenti, mentre lo stesso camion guidato (dall’autista
) presentava pneumatici fortemente usurati”.
La Sez. IV ha fatto inoltre osservare che, proprio davanti al
portone d'ingresso del capannone che si affacciava sul piazzale teatro
dell'incidente, dal quale era sbucato l'autocarro della ditta appaltatrice, non
erano stati apposti segnali di alcun genere, se non due strisce bianche
perpendicolari al portone, volte a segnalare il percorso di uscita dei mezzi
pesanti. Nessun'altra segnalazione, infatti, era stata apposta, non un cartello
di pericolo, non uno specchio parabolico che consentisse al conducente degli
autocarri in uscita di accertare preventivamente l'eventuale presenza di pedoni
o di altri veicoli in transito, evitando allo stesso di avventurarsi
all'esterno "alla cieca", non un dissuasore di velocità, che
obbligasse, quindi, il camionista ad uscire all'esterno a velocità adeguata. Lo
stesso portone, ha fatto notare la Sez. IV, era privo di segnali luminosi ed
acustici che avvertissero all'esterno dell'approssimarsi all'uscita dei camion,
della cui presenza, quindi, chi transitava sul piazzale aveva contezza solo
allorché i veicoli uscivano all'esterno, assenza di segnali che evidentemente
accresceva il pericolo di quanti si trovassero a transitare all'esterno in
concomitanza con l'uscita dei camion e che erano, nella pratica, da tempo
inutilizzati perché il portone veniva lasciato costantemente bloccato in
apertura (coprendo le cellule fotoelettriche), e quindi, la lampada esterna
rimaneva costantemente spenta, di guisa che l'approssimarsi all'uscita dei
veicoli non era in alcun modo visibile dal piazzale.
La Sez. IV ha quindi condiviso con la Corte di Appello che il
responsabile della sicurezza dello stabilimento ha sottovalutato la situazione
di rischio quotidianamente presente nello stabilimento, connessa con il
transito di numerosi veicoli e con la disordinata presenza di pedoni e
biciclette, benché fosse stata messa in evidenza anche dalle rappresentanze
sindacali, sottovalutazione che lo aveva evidentemente indotto a trascurare la
predisposizione di interventi che avrebbero potuto riportare più ordine nella
circolazione interna ed avrebbe potuto almeno ridurre il pericolo di incidenti.
Per quanto riguarda, invece, il ricorso del rappresentante legale
della ditta appaltatrice la suprema Corte ha sottolineato che è stata
individuata a suo carico una evidente sostanziale sottovalutazione da parte
della stessa della situazione di rischio derivante dal continuo transito,
all'interno dello stabilimento, dei propri automezzi e dal loro incrociare
pedoni ed altri mezzi; sottovalutazione attestata dal fatto che nello stesso documento
di valutazione dei rischi non era neanche stata presa in considerazione la
necessità di coordinare il transito dei camion con quello delle numerose
biciclette che circolavano in quello stesso contesto. I responsabili delle due
imprese, ha infine messo in evidenza la Sez. IV, non erano neanche a conoscenza
dei percorsi seguiti dai camion della ditta appaltatrice, “
circostanza dalla quale gli stessi giudici hanno tratto ulteriore
conferma dell'assenza di coordinamento e delle gravi carenze organizzative che
hanno caratterizzato i temi della sicurezza della circolazione interna allo
stabilimento”. Del tutto insufficiente, ha quindi concluso la suprema
Corte, è stata la valutazione dei rischi da parte della ditta appaltatrice ed
inesistenti sia la cooperazione che il coordinamento della stessa con i
responsabili della società committente per cui giusta è stata ritenuta la
responsabilità addebitata allo stesso rappresentante
legale.
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