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"Come migliorare ancora la sicurezza in azienda?"

fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza

06/11/2012 -
Le cose non funzionano come vorremmo
Andando nelle aziende trovo sempre più la necessità di fare concretamente qualcosa per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Ma la volontà si scontra con una realtà dura da accettare: pur con tutta la buona volontà, continuiamo a percorrere strade ormai vecchie e abusate, che secondo il principio di Pareto dovrebbero avere dato ormai quasi tutto quello che potevano.
Allora, senza continuare a dare la colpa ad altri (oggi è di moda colpevolizzare i comportamenti scorretti dei lavoratori, che sicuramente sono una importante causa di infortuni, secondo quanto confermato dalle statistiche INAIL, ma sono “colpa” dei lavoratori?), a lamentare la riduzione delle risorse ecc., vediamo cosa potremmo pensare di nuovo per dare un impulso concreto a quel miglioramento delle condizioni di sicurezza e salute sul lavoro che vogliamo perseguire.
 
Se ripartiamo dalla analisi degli infortuni che oggi ancora avvengono notiamo alcuni fattori comuni che devono farci pensare (in modo nuovo):
• Le deficienze impiantistiche e infrastrutturali non sono più la causa maggiore di infortuni, non che tutto sia perfetto, ma ormai quelle situazioni in cui l’infortunio avviene solo per difetti a livello “tecnico/strutturale” sono una minoranza. Abbiamo avuto alcuni casi eclatanti, il più evidente in THYSSEN a Torino, di mancanze impiantistiche che da sole hanno comportato conseguenze disastrose, ma si tratta di una minoranza all’interno della statistica nazionale. Eppure gli infortuni continuano ad accadere, i morti sul lavoro continuano ad essere troppi; è un fenomeno socialmente inaccettabile.
• Si diceva come in moltissimi infortuni una delle cause (non l’unica) è il comportamento azzardato del lavoratore infortunato o dei suoi colleghi. Questo è un dato di fatto che non può essere accettato passivamente.
• Un altro elemento che accompagna il precedente è che spesso le regole di sicurezza, quelle spicciole da applicare nello svolgimento delle attività elementari che costituiscono il lavoro di una persona, sono carenti o non sufficientemente dettagliate.
 
Se da questi tre punti vogliamo trarre una conseguenza, allora possiamo dire: è ora di abbandonare il fronte “tecnico/strutturale” per passare a quello “organizzativo/culturale”. Ovvio che non diciamo nulla di particolarmente innovativo, con questa affermazione: ma è assai meno ovvio come mettere in pratica ciò che ci si ripropone di fare.

Razionalizziamo lo stato dell’arte
Facciamo un passo indietro: come ragiona una azienda, meglio ancora una industria? Beh, ovviamente il timore dei vertici, dal datore di lavoro al RSPP, è quello di avere in azienda situazioni tecnicamente difformi dai requisiti di legge, sia sotto il profilo dell’hardware che sotto quello della documentazione. Questo è comunque il focus, che viene percepito come tale in quanto è la condizione che coinvolgerebbe i vertici aziendali in una ipotesi di responsabilità in caso di infortunio. Qualcuno mi obietterà: un attimo, non mettiamola troppo sul tecnico, la legge pretende anche l’informazione e la formazione dei lavoratori. E anche qui troviamo l’interesse dei vertici per il pieno rispetto dei requisiti di legge; ma allora ci dobbiamo chiedere a cosa si debbano i comportamenti scorretti dei lavoratori che sopra annoveravamo fra le principali cause degli infortuni.
 
La giustificazione del parziale fallimento della logica sopra descritta è semplice: noi abbiamo sempre pensato la “fabbrica” come un insieme di elementi privi di autonomia che devono operare all’interno di schemi predefiniti. Quindi: non un insieme di persone ma un insieme di automi. E su questi presupposti abbiamo costruito il miglioramento della salute e della sicurezza sul lavoro, facendo cose egregie (assolutamente positive) ma perdendo una sfaccettature importante della questione.
 
 
Altra obiezione alla analisi di cui sopra: ma se leggiamo la BS OHSAS 18001:2007, tutto questo che dici lo troviamo in qualche modo evidenziato. E lo era già nella OHASA 18001:1999! Alla fine è sotteso dal concetto di miglioramento continuo.
 
Verissimo, ma in pratica? Invito tutti noi a guardarci intorno, anche osservando le aziende che più hanno fatto per la sicurezza. Io mi sento di ripetere concetti sulla organizzazione e sul coinvolgimento dei lavoratori che avrei potuto sentire negli anni ’70, se non avessi avuto i calzoni corti. Ma altri amici li facevano già allora, e oggi me lo ricordano per dire: non eravamo mica scemi, le cose erano ben chiare già allora. Eppure su certi temi siamo rimasti lì, fermi, indietro di quasi 50 anni.
 
Inutile recriminare, vediamo piuttosto cosa fare. Ma prima facciamo un impietoso elenco dei fallimenti che l’industria e i lavoratori italiani hanno vissuto nel passato:
• prima di tutto la convinzione che sicurezza e salute sul lavoro si facciano attraverso strumenti meccanicistici dove ad una azione meccanica corrisponde una reazione altrettanto meccanica. Se noi ci limitiamo alla storia nazionale della sicurezza sul lavoro, il DPR 547/1955 e il successivo 303/1956 rappresentano benissimo, e con grande anticipo sui tempi, questa visione.
• Poi la convinzione che la informazione e la formazione siano per definizione strumenti efficaci. Questa convinzione ha un fondamento logico che tutti condividiamo, ovvero la convinzione che tutti dovremmo essere interessati alla nostra propria sicurezza e salute sul lavoro, e che quindi basti spiegare correttamente le cose per essere ascoltati. Niente di più illusorio, e la storia della sicurezza stradale lo dimostra ampiamente, ancora più della storia della formazione su sicurezza e salute sul lavoro...
• Terzo aspetto: la convinzione che tutti prestino attenzione a quello che fanno, e diano il loro contributo costruttivo, sul tema di cui trattiamo. È invece evidente che l’abitudine e la mancanza di “allenamento” portano a sottovalutare o non vedere i pericoli e i rischi che ne conseguono. E inoltre esiste una certa pigrizia nel segnalare le situazioni pericolose anche quando vengono rilevate.
 
Così stanno le cose: negli ultimi 15 – 20 anni abbiamo lavorato tanto, ma i risultati non sono stati così “definitivi” come ci saremmo aspettati.
 
Allora cosa possiamo proporci oggi per cambiare il passo, per ottenere quanto ci sfugge da anni?
Credo che si debba partire da una analisi degli obiettivi, che potrebbero essere:
• Eliminare gli infortuni mortali e quelli che lasciano gravi conseguenze invalidanti e permanenti, che evidentemente sono le situazioni più sconvolgenti per chi le subisce direttamente ma anche per chi è in qualche misura coinvolto. Il lavoro è prima di tutto una necessità, poi un diritto, quindi è moralmente inammissibile che si debba morire per qualcosa che devo fare, non per qualcosa che scelgo di fare per mio diletto. Lo stesso vale per se consideriamo le gravi invalidità. Su questo tema l’approccio deve essere a 360°, e deve prendere in considerazione tutte le opportunità.
• Più in generale ridurre gli infortuni dovuti ad errori evitabili ad un numero globalmente tanto basso da non rappresentare più un problema per la società in genere. Questo secondo aspetto è strettamente legato al primo perché statisticamente, se ho tanti infortuni che si sarebbero potuti evitare, fra questi prima o poi ne troverò qualcuno che ha anche conseguenze molto gravi. Quindi se riduco gli errori, automaticamente riduco gli infortuni gravi.
 
Dobbiamo quindi considerare il secondo aspetto altrettanto importante del primo in quanto impatta in modo sensibile anche sugli infortuni più gravi. Quindi partiamo da questo, considerando che gli infortuni che derivano da vere e proprie deficienze di sicurezza degli asset industriali sono ormai relativamente pochi, e diamo anche per scontato che le aziende che non sono ancora in regola sotto questo profilo siano poche e si debbano mettere “a posto” assolutamente applicando strategie e metodi ben consolidati.
 
Ma anche se le aziende completassero il cammino di risoluzione dei problemi di macchine, impianti ecc. abbiamo già osservato che gli infortuni continuerebbero ad accadere.
 
Allora, cosa possiamo fare? Vediamo le condizioni al contorno:
• Evidentemente continuano ad esistere dei rischi residui che non possono essere eliminati con misure tecniche immediate. Talvolta sono rischi davvero ineliminabili, talaltra esiste la possibilità che col tempo vengano in qualche modo risolti dallo sviluppo della tecnica, dal progressivo ammodernamento degli impianti ecc. è un processo forzatamente lento e comunque non potrà mai essere risolutivo, quindi quello che possiamo fare oggi per ridurre gli errori umani che portano ad infortuni o malattie professionali, ci verrà utilissimo anche negli anni a venire. In altri termini non si tratta di una misura temporanea ma definitiva.
• Non possiamo pensare di creare regole di sicurezza per tutte le situazioni, anche se ad oggi si può ancora migliorare tanto su questo fronte. Ne parleremo brevemente per chiarire il concetto, ora però ci serve semplicemente affermare che le regole non possono comunque risolvere il problema in modo completo.
• In ogni caso le regole non comprese a fondo possono essere seguite dai lavoratori, ma non è che questo possa avvenire al 100%. E talvolta violazioni apparentemente banali hanno come conseguenza danni gravissimi per le persone.

 

Come fare un passo “oltre”?
Quindi valutazione dei rischi, miglioramenti tecnici, definizione delle modalità di lavoro sicuro sono un insieme utile ma insufficiente. Esistono però due elementi che possono portarci oltre:
• Una migliore organizzazione della sicurezza in azienda
• Una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori (tutti, lavoratori, preposti, dirigenti)
 
Partiamo dal primo elemento anche per giustificare la necessità del secondo.
 
Come detto in azienda molti infortuni sono legati all’errore umano; l’ errore umano a sua volta può nascere dal mancato rispetto di regole esistenti, ma anche da difetti organizzativi a livello più alto. Quindi definire bene la struttura organizzativa e i relativi flussi decisionali consente di fare prendere le decisioni alle persone giuste, ovvero a chi in azienda ha effettivamente le competenze per poter decidere sia di fronte a condizioni normali, sia in caso di situazioni anomale o di piccole emergenze. Precisiamo qui che in questo testo non vogliamo entrare nell’ambito delle decisioni “in emergenza” che allargherebbero troppo l’argomento.
 
In sostanza la organizzazione (della sicurezza in una azienda) non è altro che la definizione dei flussi corretti da utilizzare nello sviluppo dei processi interni alla azienda, al fine di non commettere errori o di intercettare gli errori prima che questi si siano trasformati in un danno concreto. Quindi si tratta di definire, molto banalmente, i seguenti elementi (in relazione ad un processo determinato):
• chi fa,
• cosa fa,
• quando lo fa,
• utilizzando quali input,
• producendo quali output,
• con quali strumenti.
 
Naturalmente questo non solo per i processi che riguardano strettamente sicurezza e salute ( gestione delle emergenze e del primo soccorso, sorveglianza sanitaria, valutazione dei rischi, gestione della informazione, formazione e addestramento) ma anche per processi trasversali che toccano anche altri fondamentali aziendali del tutto diversi dalla tutela della sicurezza e della salute, anzi spesso contrastanti o concorrenziali. È il caso del processo di manutenzione piuttosto che del processo di sviluppo degli investimenti in asset produttivi.
 
Attenzione, da nessuna parte abbiamo detto che le definizione del processo deve portare a dire come si fanno le attività elementari che compongono il processo. Si tratta di una omissione voluta!
 
Infatti noi crediamo che la organizzazione, quindi i compiti e le responsabilità, debba essere definita in quanto io devo sapere cosa l’azienda si aspetta da me, quale è il mio vero ruolo. Poi l’esecuzione dei compiti assegnati … ma non potrei operare sulla base delle mie competenze, del mio buon senso e di un generale concetto di lavoro di team (cioè imparando e migliorando reciprocamente tramite la interazione con i colleghi)? Scusate, volete trattarmi come un bambino di sei anni? Io non ci sto, questo lo potrà fare la maestra col mio figlio più piccolo… io sono una persona competente, per questo mi avete assunto, dimostratelo anche con i fatti.
 
Attenzione, non è anarchia! Ma c’è un però: qualcuno potrebbe spiegarmi, a pieno titolo, che per un lavoro di tecnico in raffineria io oggi sono una bambino di sei anni. Allora sarò io per primo a gradire le regole da seguire, ma non per addormentarmi, per imparare! E per diventare un giovane di 18 anni e poi un adulto… in quel lavoro!
 
Per favore non scuotete la testa, non ridete. Se non andiamo sulla strada della crescita (maturazione) di chi opera nel mondo del lavoro in relazione al mondo in cui opera, ebbene siamo finiti! Le regole vanno benissimo per chi sopperisce la mancanza di cultura industriale con una definizione esatta di quello che si deve fare. Però tutto questo ha un prezzo (ovvero un costo minore del lavoro!). Siccome noi abbiamo altri costi dobbiamo utilizzare la rete di cervelli (di tutti i lavoratori) che rappresenta l’intelligenza e la cultura della azienda per lavorare in modo diverso, più libero, efficacie ma anche efficiente e competitivo.
 
Quindi la ricetta per crescere, anche e principalmente sulla sicurezza? Mirare a una combinazione di organizzazione e di intelligenza aziendale!
 
Buona fortuna a tutti noi!!! E buon lavoro!!!

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