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"Responsabilità dell’Ente: nessuna inversione dell’onere della prova"
fonte www.puntosicuro.it / Responsabilità degli Enti
04/12/2014 -
Le motivazioni
della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sul caso Thyssenkrupp (Cass.
Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343) contengono anche un capitolo
dedicato al D.Lgs.231/01, che è di grande interesse - anche al di fuori del
riferimento al caso specifico dello stabilimento torinese - per i chiarimenti che fornisce in ordine
all’onere della prova nel procedimento per la responsabilità amministrativa
dell’azienda e alle caratteristiche che deve avere la prova liberatoria fornita
dall’azienda.
Modelli organizzativi e colpa di organizzazione
La sentenza inquadra così il collegamento tra modelli
organizzativi e colpa di organizzazione:
“il
legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche
degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali
organismi l’obbligo
[1] di adottare le cautele
necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando
iniziative di carattere organizzativo e
gestionale.”
In particolare, chiarisce la Corte,
“tali accorgimenti vanno consacrati in
un documento, un modello che individua i rischi e delinea la misure
atte a contrastarli”:
il modello
di organizzazione, gestione e controllo (artt. 6 e 7 D.Lgs.231/01; art. 30
D.Lgs.81/08)
. Il
“non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d’organizzazione.”
L’onere della prova
E, prosegue la Cassazione,
“al riguardo, peraltro,
non si
configura un’inversione dell’onere della prova.”
Infatti
“nessuna inversione dell’onere della prova
è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato
dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del
reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al d.lgs.n.231,
art.5, e la carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di
offrire prova liberatoria.”
L’azienda ha infatti la possibilità di fornire una prova
atta a liberarla dalla responsabilità
amministrativa: come ricorda la Cassazione,
“militano a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni
probatorie di segno contrario di cui al d.lgs. n. 231, art. 6, afferenti alla
dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della
commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a
prevenire reati della specie di quello verificatosi.”
Questa impostazione, che individua una convergenza tra l’onere
della prova legato alla commissione del reato da parte della persona fisica e l’onere della prova in ordine alla
“carente regolamentazione interna
dell’ente”, deriva da quella che la Cassazione chiama
“convergenza di responsabilità” che è riscontrabile tra la
responsabilità della persona fisica, che consegue alla commissione di un
fatto-reato, e quella della persona giuridica secondo il sistema delineato dal decreto
231/01.
E tale “convergenza di responsabilità” sussiste in quanto
“il
fatto della persona fisica,
cui è
riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere
considerato
“fatto” di entrambe, per
entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che
l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella
giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della
responsabilità concorsuale.”
Infatti anche se
“la
responsabilità dell’ente ha una sua autonomia”, tuttavia
“è imprescindibile il suo collegamento alla
oggettiva realizzazione del reato […] da parte di un soggetto fisico
qualificato
[2]”.
La mancata adozione del modello organizzativo da parte della
Thyssen e l’inadeguata composizione del suo Organismo di Vigilanza
Nel caso della Thyssen,
uno degli elementi principali da cui la Cassazione (come già in
precedenza la Corte d’Assise di Torino e la Corte d’Assise d’Appello) ha
dedotto l’inidoneità del modello organizzativo adottato dopo il reato è stato
l’inserimento dell’ RSPP
e dirigente del settore ecologia, ambiente e sicurezza nell’Organismo di
Vigilanza, il quale Organismo, come noto, deve essere dotato secondo la
legge di
“autonomi poteri di iniziativa e
controllo”.
Secondo la Suprema Corte, infatti,
“il modello organizzativo non è stato mai efficacemente adottato, per
via dell’inidoneità dell’ing. Ca. a svolgere il ruolo critico previsto dalla
legge”.
Inoltre, in risposta alle argomentazioni addotte
dall’azienda nel ricorso, la Cassazione precisa che anche
“le innovazioni normative in ordine alla composizione del’ODV” subentrate
nel tempo
“non mettono in crisi la
primaria istanza di indipendenza
dell’organo.”
Maggiori dettagli
sull’inadeguatezza della composizione dell’Organismo di Vigilanza della Thyssen
sono desumibili dalla sentenza di primo grado. [3]
Già la Corte d’Assise presso il
Tribunale di Torino, infatti, sottolineando la
“superficialità” e la “
scarsa
attenzione
della sicurezza sul
lavoro” che avevano caratterizzato i vertici dell’azienda anche dopo la
tragedia avvenuta il 6 dicembre 2007, aveva avuto modo di affermare che
“quanto affermato emerge proprio dalla
nomina, quale membro dell’Organismo di vigilanza di cui all’art. 6 lett. b),
organismo di vigilanza che, secondo la legge, deve essere dotato di autonomi
poteri di vigilanza e controllo, allo scopo di implementare tale organismo come
un membro “competente” in materia antinfortunistica, dello stesso Ing. C.:
senza neppure preoccuparsi – per questo la Corte si permette di indicare tale
scelta come “superficiale e poco attenta” – del fatto, evidente, che il membro
deputato ad efficacemente vigilare sull’adozione del “modello” in materia
antinfortunistica era lo stesso dirigente
del settore ecologia, ambiente e sicurezza; in sostanza l’Ing. C, come membro
dell’organo di vigilanza, doveva controllare il suo stesso operato.”
Il Tribunale aveva anche
specificato:
“Quindi l’Ing. C., dirigente
responsabile del settore sicurezza sul lavoro, entra a far parte dell’Organismo
di vigilanza di cui all’art. 6 lett. b) nel dicembre 2007, proprio per la sua
competenza in materia di sicurezza e, nonostante i fondati dubbi, da lui stesso
sollevati, sulla sua
contraddittoria
funzione di controllore e controllato,
vi permane certamente oltre la dichiarazione di apertura del presente
dibattimento (febbraio 2009), quantomeno sino alla data in cui ha reso la sua
testimonianza (26.3.2010).”
E la sentenza di primo grado
aveva concluso:
“La Corte ritiene che
questa circostanza, di per sé sola, induca
a ritenere che il modello adottato, nel periodo preso in considerazione, non
poteva essere stato reso operativo, tanto meno in modo efficace,
sottolineando che tale organismo deve essere dotato, secondo il citato art. 6,
di “autonomi poteri di iniziativa e controllo”: non è necessario spendere
ulteriori parole sulla “autonomia” del controllore quando è la stessa persona
fisica del controllato”.
Inidoneità della “prova liberatoria” nel caso Thyssen e
trattamento sanzionatorio
L’inidoneità del modello
organizzativo della Thyssen e della composizione dell’Organismo di
Vigilanza messo in piedi dalla medesima azienda ha determinato, oltre alla riaffermazione
della responsabilità in sé della Thyssen ai sensi del decreto 231/01, anche la
conferma in termini qualitativi e quantitativi da parte della Cassazione delle
sanzioni applicate nei gradi precedenti
all’azienda per la responsabilità amministrativa.
Conclude infatti la Suprema Corte sul punto:
“per ciò che attiene al trattamento
sanzionatorio, la pronunzia [d’appello, n.d.r.] è appropriata ed immune da
censure. Infatti, contrariamente a quanto dedotto, si fa leva non solo e non
tanto sulla drammaticità degli eventi, ma anche sulla
gravità della colpa, sulla
consolidata
avversione a costruire procedure decisionali e gestionali
trasparenti.
Tale apprezzamento giustifica la modulazione delle sanzioni in tutte le sue
articolazioni.”
Anche per quanto riguarda la sussistenza del
“profitto” - infine - quale elemento
che ha rilevanza secondo il decreto 231/01 ai fini dell’applicazione delle
sanzioni interdittive e della confisca, la Cassazione è lapidaria
nell’affermare che
“con riguardo ad una
condotta che reca la
violazione di una
disciplina prevenzionistica,
posta
in essere per corrispondere ad istanze aziendali, l’idea di profitto si
collega con naturalezza ad una situazione in cui l’ente trae da tale violazione
un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche
oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività
in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura
di quanto dovuto. Qui si concreta il vantaggio che costituisce il nucleo
essenziale dell’idea normativa di profitto.”
E conclude, con riferimento allo specifico caso dello
stabilimento torinese:
“dunque non erra
per nulla la Corte di merito quando individua il profitto, come minimo, nel
risparmio di spesa inerente all’impianto di
spegnimento; oltre che nella prosecuzione dell’attività funzionale alla
strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza.”
Anna Guardavilla
[1] La
giurisprudenza spesso, parlando dell’adozione e attuazione dei modelli
organizzativi, usa il termine “obbligo”. Come noto, l’adozione e attuazione del
modello organizzativo è un atto
formalmente
volontario, ovvero una facoltà, ma il ragionamento
sostanzialistico che soggiace all’utilizzo del termine “obbligo” è
che, qualora dovessero ricorrere tutti i presupposti per l’applicazione della
responsabilità prevista dal D.Lgs.231/01 nei confronti dell’azienda (tra cui
anche l’interesse o vantaggio), ove si avviasse un procedimento giudiziario in
tal senso e l’azienda non avesse implementato il modello organizzativo,
l’applicazione della sanzione - quantomeno pecuniaria - sarebbe certa.
[2] La
Cassazione precisa che nello stesso senso va Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957.
[3] Si
veda anche, su questo, A. Guardavilla,
“ L’Organismo
di Vigilanza nella legge di stabilità e nella sentenza Thyssenkrupp -
Quando il controllore coincide con il controllato”, pubblicato in
Puntosicuro del 17 novembre 2011 n.2743.
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