News
"E’ configurabile il rischio elettivo nelle malattie professionali? "
fonte www.puntosicuro.it / Malattia Professionale
04/03/2015 -
Viene commentata una sentenza della Corte di Appello di
Genova - aggravamento di una malattia in costanza di esposizione al rischio -
partendo dalla sentenza della Corte Costituzionale n.46/2010 - in cui si
insinua la presenza di un "rischio elettivo" per il comportamento del
lavoratore, al fine di far decadere il diritto alla prestazione, in quanto si
ipotizza che l'assicurato si sia sottratto alla previsione di cui all'art. 131
del T.U non avendo abbandonato l'esposizione al rischio consapevolmente.
Dissente integralmente da tale posizione e ritiene che un
aggravamento di una malattia professionale in costanza di esposizione è,
eventualmente - in comprovata non rispondenza dei comportamenti posti in essere
dei soggetti titolari della tutela della salute al dettame normativo sulla
prevenzione - responsabilità del Medico Competente e del Datore di Lavoro, e
non potrà mai essere considerato un "rischio elettivo" cui si è
sottoposto il lavoratore tale da invalidare l'indennizzo.
La nota sentenza n.46/2010 della Corte Costituzionale ha
statuito che la protrazione dell'esposizione al rischio, dopo la costituzione
della rendita, allorché comporta un aggravamento delle condizioni cliniche
manifestatesi oltre l'ultimo termine revisionale, comporta che detto
aggravamento debba essere considerato come una «nuova» malattia, seppure della
stessa natura della prima, e come tale deve essere trattato.
Dopo l'uscita di questa suggestiva interpretazione ci si è
spesi, in più riprese, in una disamina analitica di detta fattispecie con tutte
le eventuali ricadute, affrontando le varie tematiche sottese, soffermandosi
anche su alcuni gravi incongruenze - dopo aver analizzato tutto l'iter della
causa nei diversi e plurimi gradi di giudizio per giungere ad una compiuta
definizione - sia da parte della Corte Costituzionale, che dei diversi giudici
di merito, che delle parti, attrice e resistente, che non hanno saputo ben
interpretare compiutamente l'applicazione del nuovo e "audace"
principio.
In uno dei tanti commenti ci soffermavamo anche sulla
problematica, singolarmente ignorata, legata ad una mancata attività
prevenzionale al fine di evitare un possibile, quasi certo,
aggravamento
legato alla prolungata esposizione anche dopo la manifestazione della malattia
professionale, e sulle responsabilità connesse alle prerogative (obblighi)
sia del Datore di lavoro che del Medico competente ai fini della tutela della salute
del lavoratore.
Nel commento a caldo della sentenza, nel marzo 2010, si
concludeva il contributo affermando che
"
..la sentenza offre anche altri spunti sul piano
prevenzionale relativamente alla tutela effettiva della salute del lavoratore
laddove il giudizio di idoneità alla mansione specifica, da parte del Medico
Competente, abbia mancato di evitare quella stessa esposizione al rischio che è
stata causa di malattia professionale." aggiungendo che se è vero che
"E'
soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell'art. 2087 c.c. il
datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore con la
sua residua capacità lavorativa continua ad adibirlo a mansioni, che sebbene
corrispondenti alla sua qualifica, siano suscettibili - per la loro natura e
per lo specifico impegno (fisico e mentale) - di aggravamento a seguito
dell'attività svolta..." (Cass. sez. lav. 3 luglio 1997, n. 5961) la
responsabilità non potrà che ricadere sul Medico Competente.
Infatti, come è noto, il Medico Competente deve attuare la
sorveglianza sanitaria, con il relativo giudizio di idoneità, non solo in fase
preventiva per constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro da svolgere
ma anche periodicamente onde evitare "un peggioramento delle condizioni di
salute del lavoratore a causa dell'attività lavorativa" come statuisce la
normativa prevenzionale.
Anche se non vi è alcun divieto esplicito per lasciare un
lavoratore esposto ad un rischio laddove a causa di detto rischio si sia
manifestata la malattia professionale, purché detta attività venga svolta nel
rispetto della normativa di riferimento - D-.lgs 81/2008 e s.m.i. - è ovvio che
il principio cardine della tutela della salute del lavoratore deve essere
prevalente e quindi con maggior cura valutare la possibilità o meno
dell'ulteriore esposizione a soggetti già menomati come quelli che hanno già
contratto la malattia, al fine di evitare che il proseguimento dell'esposizione
possa comportare maggior danno.
Fermo detto principio siamo incappati, in materia similare -
cioè aggravamento per la continuazione ad esposizione nociva - in una sentenza
della Corte di Appello di Genova 1
, che
francamente ci ha lasciati interdetti e assai perplessi in
merito alla posizione tenuta da parte dell'Istituto assicuratore che avrebbe
dovuto - visto anche la riforma del 2012 con l'affidamento allo stesso anche di
specifiche competenze ai fini preventivi - essere un po' più cauto ed attento
nel sostenere posizioni con interpretazioni a dir poco "fantasiose"
della norma.
In concreto, rimandiamo alla lettura completa della sentenza
allegata, trattavasi di un soggetto che si vedeva, in sede amministrativa,
riconoscere un danno biologico per malattia professionale - " Ipoacusia
da rumore" - sotto il minimo indennizzabile, quindi NON risultava
contestato
l'an ma il quantum, e che adiva il giudizio per vedersi
riconoscere un maggior danno; il CTU, ben motivando, riconosceva dopo i
necessari accertamenti un danno per ipoacusia da rumore del 9% (D.B.) dal 2008,
atto della domanda, con un aggravamento successivo che quantificava, per il
2011, pari all'13%. Il giudice del Tribunale sposava integralmente detta
posizione motivandone l'adesione
L'Istituto assicuratore proponeva appello - senza entrare
nello specifico delle diverse e plurime motivazioni cui si rimanda - con due
considerazioni che ci appaiono francamente singolari.
La prima laddove si contestava l’aggravamento avvenuto tra
il 2008 ed il 2011, dato il breve lasso di tempo tra i due riscontri, sembrando
ignorare che per legge in caso di malattia professionale il danno è rivedibile
con scadenza annuale, il che statuisce,
ope legis, che anche in un brevissimo
lasso di tempo, un anno - vi può essere una modificazione della situazione,
altrimenti non si comprende la specificità della visita di revisione annuale,
motivazione di appello, quindi, quanto meno poco ortodossa.
Da segnalare, inoltre, che tale soggetto aveva continuato ad
essere esposto ed "...
è ampiamente noto in letteratura che persistendo
l'esposizione a rischio sia possibile un’aggravamento dell'ipoacusia
professionale in relazione all'intensità ed ai tempi di esposizione al rumore
ambientale, l'ipoacusia potrà quindi aggravarsi estendendosi anche alle altre frequenze
acute per poi coinvolgere anche le frequenze medie." ma l'aggravamento
può avvenire anche senza il protrarsi dell'esposizione per un fatto evolutivo
progressivo, visto e considerato, che la revisione decorre dalla costituzione
della rendita ed a nulla rileva il protrarsi o meno dell'esposizione che semmai
potrà comportare un maggiore aggravamento.
La seconda, invero sconcertante, laddove ci si avventura nel
sostenere che avendo l'assicurato continuato a svolgere - dopo il
riconoscimento della malattia professionale - mansioni che lo esponevano rumore
nocivo, "..
si sarebbe esposto
a rischio elettivo, cosi
determinando l'interruzione del nesso di causalità tra il danno e l'esposizione
al rischio..." in considerazione che l'assicurato essendo consapevole
del riconoscimento
della malattia professionale non si era sottratto volontariamente al
rischio; il tutto veniva fondato su di una interpretazione che riteniamo
"provocatoria" dell'art. 136, 1 comma, del D.P.R. n. 1124 del 1965,
che recita
"Nel caso di inabilità permanente al lavoro in conseguenza
di malattia professionale, se il grado dell'inabilità può essere ridotto con
l'abbandono definitivo o temporaneo della specie di lavorazione per effetto e
nell'esercizio della quale la malattia fu contratta, e il prestatore d'opera
non intende cessare dalla lavorazione, la rendita è commisurata a quel minor
grado di inabilità presumibile al quale il prestatore d'opera sarebbe ridotto
con l'abbandono definitivo o temporaneo della lavorazione predetta."
A nostro avviso si ravvedono due grossolane forzature -
giustamente respinte entrambe dalla Corte di Appello - uno sul concetto di
rischio elettivo e l'altro in merito all'applicazione e rispetto della
normativa prevenzionale che non può certo essere in capo al lavoratore ma ad
altri soggetti preposti alla "
prevenzione ed alla tutele della salute
sui luoghi di lavoro".
In merito al rischio elettivo - "vivisezionato" è
il caso di dire nel campo dell'infortunistica sul lavoro, per dare una compiuta
ed esaustiva definizione di
"occasione di lavoro, in primis sull' infortunio in
itinere
- mal si comprende come possa essere fatto riferimento al
"rischio elettivo" per una malattia professionale in considerazione
che, in quest'ultima fattispecie, il lavoro NON è occasione ma causa!
Come è noto la Corte di Cassazione 2
più e più volte ha affermato che "...c
ostituisce orientamento
interpretativo acquisito di questa Suprema Corte che il rischio elettivo, quale
limite alla responsabilità del datore di lavoro nella causazione degli
infortuni sul lavoro, (e di indennizzo da parte Inail )
è ravvisabile,
per richiamare una definizione sintetica ricorrente, solo in presenza di un
comportamento abnorme, volontario ed arbitrario del lavoratore, tale da
condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività
lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva
di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento secondo l'apprezzamento di fatto
riservato al giudice di merito", ci sfugge quindi la ratio, essendo
tacita detta interpretazione ormai UNIVOCA, come possa in qualche modo essere
applicato alla malattia professionale il concetto di rischio elettivo dato che
la M.P. è sempre da ricollegarsi al lavoro come causa e non come occasione.
E' ormai codificato che il
"rischio elettivo" sia configurabile solo quando
concorrano tre elementi nella condotta del lavoratore:
a) vi deve essere non solo un atto volontario (in
contrapposizione agli atti automatici del lavoro, spesso fonte di infortuni),
ma altresì arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità
produttive;
b) diretto a soddisfare impulsi meramente personali, il che
esclude le iniziative, pur incongrue, ed anche contrarie alle direttive
datoriali, ma motivate da finalità produttive;
c) che affronti un rischio diverso da quello cui sarebbe assoggettato,
sicché l'evento non abbia alcun nesso di derivazione con lo svolgimento
dell'attività lavorativa.
Questi elementi concorrono a distinguere il rischio elettivo
dall'atto lavorativo compiuto con colpa, costituita da imprudenza,
negligenza, imperizia se si vuole ipotizzare nel caso di specie.
Ci si domanda come potesse rispondere a detti requisiti il
presunto comportamento del lavoratore per fare rientrare il tutto nel
"rischio elettivo".
A meno che non si volesse far intendere che c'era un
"dolo" per pervenire ad un aggravamento, perché solo se c'è il dolo
si perde il diritto alla prestazione come recita l'art. 65 del T.U. , esteso
anche alle M.P. , l'indennizzo non viene meno neanche per colpa grave, ma il
"dolo" non ha nulla a che fare con il "rischio elettivo".
Singolare poi che questa particolare interpretazione del
"rischio elettivo" viene svolta equivocamente con riferimento
all'art.136 del T.U. - assai incauto - perché così vengono anche ribaltati i
ruoli e le responsabilità di chi è obbligato a dare attuazione alla normativa
di tipo preventivo, implicita in detto articolo, trascurando anche principi
basilari scaturenti dal D.Lgs 81/2008 ed addossando la, eventuale,
responsabilità al lavoratore.
La sentenza nel respingere anche questo addebito ha
"sorvolato" su questo abbaglio, limitandosi a respingerla sotto il
profilo giuridico dichiarando da una parte l'inammissibilità del motivo in
considerazione che la questione veniva proposta per la prima volta in appello e
dall'altra, con pienezza, ne definiva l'infondatezza, "..
non essendo
stata dedotta l'esistenza di un provvedimento che invitava il lavoratore ad
abbandonare le lavorazioni morbigene..." facendo capire chiaramente
che comunque erano altri che, eventualmente, si dovevano attivare in tal senso
e nulla poteva essere addebitato, come responsabilità, al lavoratore.
Il DLgs 81/2008 - ma anche il precedente testo 626/1994 - ha
ben delineato compiti e responsabilità dei diversi attori della prevenzione, in
primis il Datore di Lavoro ed il Medico Competente e se nel caso di specie il
soggetto ha continuato a svolgere la propria attività rimanendo esposto allo
stesso rischio, l'eventuale responsabilità del successivo aggravamento non
potrebbe mai esser addebitato a quest'ultimo ma semmai a chi ha "omesso"
i dovuti controlli prima dell'adibizione nuovamente a detto rischio.
Crediamo, anzi siamo certi, che la posizione sostenuta in
appello sia stato solo un equivoco, diciamo per troppa foga di difesa, perché è
inimmaginabile ritenere detta posizione - anche solo latamente - condivisibile
nel metodo e nel merito da chiunque lavori in campo assicurativo sociale ed in
campo preventivo ed in chi abbia a cuore la tutela della salute del lavoratore
Rimane nello sfondo la problematica da cui eravamo partiti -
esposizione allo stesso rischio dopo aver contratto la malattia professionale -
ma la soluzione deve essere ritrovata all'interno della normativa di
riferimento - senza artifizio alcuno - ed a noi pare già "risolta" in
quanto è noto che il giudizio di idoneità deve essere espresso a seguito di
visita medica dopo aver constatato
".. l'assenza di controindicazioni
al lavoro cui il lavoratore è destinato...".
Non è di difficile comprensione il fatto che un soggetto già
portatore di una malattia professionale meriti un'attenzione ancor più
scrupolosa da parte del medico competente prima di dare il parere
di idoneità, e che il Datore di Lavoro non può sottrarsi ad una scelta
ponderata di tale figura limitandosi ad una scelta di convenienza economica
nell'affidamento di detto compito.
E' uno specifico obbligo del Datore di lavoro - norma
preventiva - quello di affidare i compiti ai lavoratori "..
tenendo
conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro
salute e alla sicurezza" e, come detto, a quanto previsto
dall'art.2087 al fine di "
..tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale del prestatore di lavoro..", per il tramite del
medico competente.
Il dettame legislativo indica con chiara evidenza come il
datore di lavoro, pur se responsabile debba essere sostenuto, nell'adempimento
dell'obbligo, da figure specialistiche previste dalla norma stessa, ed in
primis dal medico competente relativamente agli obblighi sanitari, in quanto
solo il professionista medico può valutare "compiti",
"capacità" e "condizioni" del lavoratore per l'adibizione
al lavoro, ed è per questo che la scelta dello stesso è una responsabilità
piena del Datore di Lavoro che non può limitarsi a chiedere quanto chiede il MC
per lo svolgimento dell'attività e basare la sua scelta su un
"risparmio", ma valutarne in qualche modo la professionalità per
essere veramente garantito in caso di evento negativo.
Adriano Ossicini
Specialista in Medicina Legale e
del Lavoro
Fonte: medicocompetente.it
Segnala questa news ad un amico
Questa news è stata letta 1050 volte.
Pubblicità