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"La tutela della salute e sicurezza nel lavoro all’estero"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza sul lavoro
13/03/2015 - Nell’ambito della mia attività
professionale capita sempre più spesso di interloquire con aziende o operatori
della prevenzione che mi pongono quesiti relativi alla gestione del lavoratore
inviato all’estero o, di converso, a quella del lavoratore inviato
dall’estero in Italia a svolgere una prestazione lavorativa. Le domande poste
sono, peraltro, disparate, in larga misura “sollecitate” da dinamiche
economiche – legate al consolidamento di un mercato economico sempre meno
nazionale e alla facilità degli spostamenti delle persone in ambito europeo ed
extracomunitario – quasi mai prese in considerazione da una regolamentazione
legale della salute e sicurezza sul lavoro per sua natura (penale) inderogabile
e, quindi, particolarmente rigida. Per quanto questo breve contributo non abbia
certamente la pretesa di rispondere a tutti i possibili dubbi relativi al
lavoro Italia-estero o estero-Italia, esso costituisce il mio tentativo di
individuare in via estremamente sintetica i principali riferimenti normativi
applicabili in materia, in modo che di essi si possa tener conto per risolvere
le questioni che “sul campo” giornalmente emergono.
Il fondamentale dubbio da
risolvere in questi casi è fornire la risposta alla domanda: “
che Legge si applica”?; domanda non
solo legittima ma quasi “obbligata”, visto che in simili casi si intersecano
tra loro normative differenti, nazionali ed estere e, in particolare:
- Le Direttive comunitarie (in
particolare, n. 89/391 CE in materia di salute e sicurezza e n. 97/71 CE in
materia di distacco dei lavoratori nell’ambito delle prestazioni di servizio);
- I Regolamenti UE (593/2008 del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile
alle obbligazioni contrattuali, c.d. Roma I);
- I principi di diritto penale;
- I principi inderogabili in
materia di salute e sicurezza sul lavoro (d.lgs. n. 81/2008).
Tanto premesso,
in linea di massima la Legge applicabile
viene scelta – in modo convenzionale – dalle parti che stipulano il contratto.
Tuttavia, va sempre ricordato che le parti possono liberamente regolare tra
loro i propri rapporti economici ma certamente non possono derogare a
determinate regole, a tutela di beni di rilevanza costituzionale (come,
appunto, la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori, ai quali
afferiscono – rispettivamente – l’articolo 32 e l’articolo 41, secondo comma,
della Costituzione).
Ma l’infortunio del lavoratore di
una azienda italiana avvenuto all’estero può comportare responsabilità per il
datore di lavoro e subdelega (o altro soggetto obbligato ai sensi della
normativa antinfortunistica come, ad esempio, un dirigente) in Italia? Dal
punto di vista penalistico le regole di riferimento per rispondere a tale
quesito si rinvengono nei primi articoli del codice penale. In particolare
l’articolo 6 c.p. dispone che: “
il reato si considera commesso nel
territorio dello Stato, cioè in Italia, quando l'azione o l'omissione che lo
costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l'evento
che è la conseguenza dell'azione o dell'omissione”; prendendo ad esempio i reati con evento infortunistico (lesioni o
omicidio con violazione della normativa antinfortunistica, artt. 590 e 589
c.p.), ciò significa
che si considera commesso nel territorio dello
Stato non soltanto il reato di omicidio colposo o lesioni personali quando
il lavoratore si infortuna nello Stato italiano, ma
anche, in caso di evento
all'estero, il reato che derivi causalmente da una azione o omissione che è
avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato (si pensi, ad
esempio, ad una incompleta valutazione dei rischi o, ancora, ad una omessa
formazione). Cass. Pen., 17 Ottobre 2014, n. 43480, evidenzia – in un caso di
morte di un lavoratore inviato dal datore di lavoro all’estero – che è
: “
corretta l'affermazione della
giurisdizione italiana e l'individuazione del giudice competente per
territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente
ascrivibile a un cittadino italiano, ossia al datore di lavoro, commesso
all'estero e come tale punibile, ai sensi dell'art. 9 c.p., comma 2, su istanza
della persona offesa, nella specie sussistente essendo stata avanzata querela -
denuncia dal prossimo congiunto della vittima”.
L’obbligo di sicurezza nei
confronti del lavoratore italiano che svolge attività fuori dai confini
nazionali ricade – quindi – sul datore di lavoro italiano, che deve assicurare
idonee misure per tutelarne la salute e sicurezza, tenendo conto del noto
principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, pacificamente
ritenuto applicabile dalla giurisprudenza in materia di salute e sicurezza alla
prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Come ribadito, solo
tra le ultime sentenze, da Cass.
pen., sez. IV, 5 Febbraio 2014, n. 2626,
“
seppure è vero che l'art. 2087 c.c. non introduce una
responsabilità oggettiva del datore di lavoro, è altrettanto vero che, per la
sua natura di norma di chiusura del sistema di sicurezza, esso obbliga il
datore di lavoro non solo al rispetto delle particolari misure imposte da leggi
e regolamenti in materia anti infortunistica,
ma anche all'adozione di tutte
le altre misure che risultino, secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l'integrità fisica dei
lavoratore, salvi i casi di comportamenti o atti abnormi ed imprevedibili del
lavoratore medesimo, ma non di colpa di quest'ultimo. In sostanza le norme
dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire
l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore
non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli
ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la
conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio
occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure
protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto
effettivamente uso da parte del dipendente (…)”.
Il datore di lavoro dell’azienda
o unità produttiva del lavoratore inviato all’estero deve, quindi, assicurare idonee misure per la tutela della
salute e della sicurezza secondo i livelli prescritti dalle norme di
prevenzione della normativa italiana, avuto riguardo al principio appena
richiamato. Ciò è ulteriormente confermato dalla circostanza che (come si
evince, peraltro, dalla ampiezza delle informazioni che si trovano al riguardo
sul sito dell’INAIL, al quale si rinvia per approfondimenti
sul punto)
il lavoratore rimane
anche assicurato INAIL in Italia.
In termini pratici
di
fondamentale rilevanza è la programmazione e realizzazione di una corretta
valutazione dei rischi, della quale, in caso di invio di lavoratori
all’estero, deve fare parte integrante la considerazione dei rischi ai quali
sono esposti tali lavoratori; ciò per pianificare e realizzare (nei limiti del
possibile) tutte le misure che siano idonee a tutelare il lavoratore “mandato”
, per ragioni produttive, fuori dall’Italia. In tale logica il datore di lavoro
italiano deve considerare i c.d. “rischi generici aggravati”, vale a dire i
rischi concernenti le caratteristiche geografiche e climatiche della località
estera, le condizioni sanitarie, le caratteristiche culturali, politiche e
sociali della comunità, il rischio di guerre o secessioni e l’adeguatezza delle
strutture di supporto per l’emergenza e il pronto soccorso. Di conseguenza, le
misure da adottare saranno protocolli sanitari, notizie da fornire ai
lavoratori relativamente alla
security e simili. A tale riguardo, va
detto che le procedure “interne” utilizzate da aziende italiane che, da molti
anni, svolgono attività all’estero –
anche in zone a rischio pandemia e/o guerra – hanno raggiunto, come ho potuto
personalmente constatare nelle mie collaborazioni professionali, livelli di
grande puntualità ed efficacia, costituendo un importante patrimonio di
conoscenze che andrebbe, casomai, esteso (magari divulgando tali “buone prassi”
attraverso soggetti pubblici come il Ministero del lavoro, l’INAIL o le
Regioni, a seguito di “validazione” da parte di tali soggetti delle esperienze
aziendali) alle imprese che, non avendo tale
background operativo, si accingano ad inviare maestranze
all’estero.
Tornando, però, alla domanda
iniziale, va sottolineato che le modalità di gestione del lavoro
all’estero vanno sensibilmente differenziate – pur nel medesimo contesto
normativo di riferimento, al quale si è accennato nelle precedenti righe di
questo contributo – a seconda che:
A) Il Paese in cui si invii il
lavoratore sia “in area UE”
B) Il Paese in cui si invii il
lavoratore sia in un Paese “extra UE”.
Ai lavoratori distaccati in
ambito comunitario si applicano, in particolare, le disposizioni di cui alla
direttiva n. 97/71/CE, la quale prevede che la normativa applicabile sia quella
del Paese ospitante. In caso di invio di un lavoratore presso un Paese UE
è
possibile per il datore di lavoro fare affidamento su un “substrato” comune di
regole che permette una sorta di reciprocità tra i regimi giuridici
applicabili. Ad esempio, le parti possono concordare che si applichi
interamente la normativa del Paese ospitante e il datore di lavoro che invia il
lavoratore può essere relativamente tranquillo rispetto alla coerenza tra i
sistemi giuridici (es.: la valutazione dei rischi ha sostanzialmente gli stessi
contenuti nell’area dei Paesi UE).
Ne
deriva che qualunque sia lo Stato dell'Unione europea in cui venga svolta la
prestazione, purché questo abbia recepito le direttive comunitarie in materia
di salute e sicurezza sul lavoro, applicando la normativa locale vengono
sicuramente garantite misure di prevenzione con i livelli i essenziali di
tutela equivalenti a quelli italiani.
Nel caso di invio di un
lavoratore in un Paese non europeo non è, invece, possibile fare affidamento su
un sistema uniforme tra il Paese di provenienza ed il Paese UE. Il datore di
lavoro deve, in questo secondo caso, quindi valutare quanto le regole del Paese
in cui si invia il lavoratore siano adeguatamente “sicure” per il lavoratore.
Ciò perché, si ripete,
anche nei Paesi extracomunitari
il datore di
lavoro dovrà garantire livelli di tutela
equivalenti a quelli previsti dalle norme di prevenzione del nostro Paese.
Di conseguenza, nei cosiddetti “Paesi a rischio”, individuabili anche in base
alle informazioni reperibili sul sito del Ministero competente (Affari esteri,
c.d. “Farnesina”), dovrà essere data particolare valenza alla valutazione dei
possibili “rischi generici aggravati”. Ad esempio, in materia di requisiti di
sicurezza di apparecchiature e macchine, si evidenzia che gli standard vigenti
in Europa, emanati dagli organi di normazione europei CEN, CENELEC, ETSI, sono equivalenti
a quelli internazionali emanati dagli organismi di normazione internazionale
ISO, IEC, ITU, o a quelli recepite dagli organismi nazionali di normazione dei
Paesi extraeuropei.
Un brevissimo cenno va fatto
all’ipotesi “inversa” rispetto a quella sin qui considerata, corrispondente
alla circostanza che l’azienda italiana si avvalga di personale straniero che
lavori in Italia, la quale va inquadrata alla luce dei medesimi principi sin
qui riportati, che verranno attuati in modo “simmetrico” rispetto a quanto
appena esposto. A tali lavoratori si applicherà la normativa che le parti hanno
individuato come riferimento e,
comunque, al lavoratore straniero operante
in Italia andrà garantito dalle parti (compresa, quindi, l’azienda italiana
“ospitante”) un livello di tutela coerente con quello che il nostro Paese
garantisce al lavoratore italiano che opera – magari svolgendo medesime
mansioni rispetto al lavoratore straniero – nella medesima azienda.
A tale ultimo riguardo – fermo
restando che l’argomento meriterebbe uno specifico approfondimento, che qui,
per ragioni di economia della trattazione, non è possibile effettuare –
interessante appare quanto recentemente esposto dalla Suprema Corte (Cass.
pen., sez. IV, 27 Agosto 2014, n. 36268) nel caso di un infortunio occorso ad
un lavoratore di una ditta straniera (per la precisione, di nazionalità croata)
in un cantiere italiano, evidenziando come rispetto alla impresa straniera:
“…
l'imputato avesse omesso di esaminare
la documentazione relativa alla sicurezza del lavoro dell'impresa appaltatrice
e non avesse esercitato controlli e verifiche…” in ordine alla
capacità tecnico-professionale dell’azienda straniera ad operare “in
sicurezza”, come richiesto dalla normativa italiana (articolo 26 e Titolo IV
del d.lgs. n. 81/2008). In particolare, secondo la Corte di Cassazione, anche
nei riguardi di una impresa non italiana
“la
posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa
appaltatrice trova la sua ragion d'essere nella finalità di evitare che,
attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate
all'appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in
grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza. (…) Si può,
dunque, desumere dalla norma in esame una precisa regola di diligenza e
prudenza che il committente dei lavori dati in appalto è tenuto a seguire e, in
particolare, l'obbligo di accertarsi che la persona alla quale affida
l'incarico sia, non solo munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge,
come si evince dal riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della
Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e professionale
proporzionata al tipo di attività che deve esserle commissionata e alle
concrete modalità di espletamento della stessa. In altre parole, tale norma
svolge funzione integrativa del precetto penale che sanziona il reato di
lesioni colpose ponendo a carico del committente l'obbligo di garantire che
anche l'impresa appaltatrice che svolge attività nella sua azienda si attenga a
misure di prevenzione della cui inosservanza lo stesso committente sarà
chiamato a rispondere”.
Avv. Lorenzo Fantini
Avvocato
giuslavorista, già dirigente (anni 2003-2013) delle divisioni salute e
sicurezza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
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