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"Procedimenti in materia di amianto: riflessioni su causalità e colpa"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza
07/05/2013 - La sentenza Eternit che
ha condannato in primo grado a 16 anni Stephan Schmidheiny e Louis de
Cartier, colpevoli per disastro ambientale e omissione di cautele
antinfortunistiche, è stata definita da molti una sentenza storica.
Comunque una sentenza che avrà, come rilevato in una nostra intervista al sostituto procuratore Raffaele Guariniello, ripercussioni in tutte le aule giudiziarie, non solo italiane. E per i primi giorni di giugno 2013 è atteso il
verdetto d’appello.
In attesa del verdetto è bene tornare a parlare di
amianto e dell’
accertamento del nesso causale e della colpa nei reati correlati a infortuni e malattie professionali.
Per farlo presentiamo un interessante
working paper dell’ Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro ( Olympus), inserito sul sito di Olympus il 17 gennaio 2013.
Si tratta di un breve saggio di Beniamino Deidda, che è stato
Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di
Firenze, dal titolo “
Causalità e colpa nella responsabilità penale nei reati di infortunio e malattia professionale”.
Il saggio riproduce una relazione di Deidda al Convegno “Le
malattie professionali: adempimenti medico-legali e indicazioni
operative di prevenzione”, svoltosi a Montecassiano (MC) il 27 settembre
2012.
L’autore
ricorda come i più recenti sviluppi del dibattito intorno ai temi della
causalità e della colpa abbiano riguardato proprio i procedimenti penali
in materia di morti da amianto. E in questo senso “la vicenda
dell’amianto nel nostro Paese è divenuta un passaggio cruciale di qualsiasi
riflessione sul c.d. ‘
diritto penale del
rischio’”.
Le
pronunzie della giurisprudenza in quest’ambito rivestono “un valore emblematico
rispetto ai possibili fattori dannosi per la salute ancora non compiutamente
accertati o non completamente sostenuti da sicure evidenze scientifiche”. La vicenda
dell’amianto,
“comunque si concluda, segnerà il comportamento dei giudici in tutte quelle
situazioni nelle quali la possibile nocività di alcuni fattori non è sostenuta
da definitive prove scientifiche, ma è solo ipotizzata in seguito agli studi
epidemiologici più o meno convincenti”.
Molti
indicano che per fare chiarezza in materie irte di difficoltà, come quella
dell’amianto, è necessario “
tenere ben
distinte le problematiche relative alla causalità da quelle relative alla colpa.
Si tratta di una confusione nella quale spesso cadiamo noi pubblici ministeri e
giudici”.
Il
magistrato propone all’attenzione un
caso
esemplificativo relativo a un datore di lavoro “che, senza adottare nessuna
delle doverose misure di prevenzione per evitare la diffusione delle polveri
nell’ambiente di lavoro, abbia esposto per anni i suoi lavoratori a lavorazioni
polverose”. Se “poniamo che dopo qualche tempo uno di questi lavoratori muoia
per un tumore polmonare”, in casi come
questi “non è raro che i magistrati ritengano provato il nesso di causa tra
esposizione alle polveri e il tumore mortale che ha colpito il lavoratore. In
realtà l’unico dato certo che emerge è che è stata violata la norma cautelare
che impone il divieto di diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro. Il
comportamento del datore di lavoro è certamente sufficiente per affermarne la
colpa, ma non serve a ritenere esistente il nesso causale tra
il comportamento e l’evento mortale che
deve essere invece adeguatamente dimostrato. Dunque, l’errore che molto
spesso si compie consiste nel ritenere automaticamente che l’evento mortale sia
conseguenza della violazione della regola cautelare, senza ulteriori
accertamenti. In realtà
la colpa del
datore di lavoro non contribuisce
a
provare il nesso di causa quando, secondo le leggi scientifiche e le
conoscenze epidemiologiche, esso rimane incerto”.
Per
approfondire il
tema del nesso causale
Deidda fa riferimento alla
sentenza
Franzese (Cassazione civile , SS.UU, sentenza 11.09.2002 n° 30328) in
materia di responsabilità professionale di un medico chirurgo.
Tale
sentenza ha “segnato un passaggio fondamentale risolvendo un contrasto
giurisprudenziale in ordine al
grado di
certezza probatoria che deve caratterizzare le sentenze del giudice ed
influendo indirettamente sulla questione del rispetto delle garanzie per
l’imputato.
La
giurisprudenza più recente si richiama frequentemente alla sentenza Franzese
col proposito di utilizzare i criteri rigorosi nell’accertamento del nesso
causale che essa raccomanda”. In realtà “la vera novità introdotta dalla
sentenza Franzese è quella di avere
ancorato
l’accertamento causale al concetto di elevata probabilità logica o credibilità
razionale”.
Tuttavia
- dicono i critici – “le interpretazioni giurisprudenziali derivanti dalla
sentenza Franzese si attengono ad indicazioni
troppo generiche per quanto riguarda il decorso causale ipotetico, con
il rischio di sacrificare i principi di garanzia che devono caratterizzare ogni
processo penale”.
Sempre
in relazione all’accertamento del nesso causale, riguardo ai casi di malattia
professionale, “si deve dire che per un lungo periodo la giurisprudenza si è
attestata sulla teoria cosiddetta dell’
aumento
del rischio”. Il criterio dell’aumento del rischio è stato “superato dagli
orientamenti giurisprudenziali più recenti che hanno adottato il paradigma
della
spiegazione causale,
soprattutto con riferimento agli eventi derivanti dall’esposizione ad amianto,
con particolare riguardo al mesotelioma”.
E
nella sentenza n. 38991 del 4 novembre 2010 la IV sez. pen. della Cassazione
“ci ricorda che, mentre sono pacifici i nessi causali tra esposizione
ad amianto ed asbestosi, sulle dinamiche causali del mesotelioma
pleurico
si contendono il campo due leggi scientifiche alternative: da un lato quella
che considera il mesotelioma come una patologia dose-dipendente, dall’altro
quella che lo considera come conseguenza di esposizioni anche bassissime al
momento dell’innesco (la dose-killer) e sostanzialmente indifferente alle
successive esposizioni. Secondo la prima teoria l’evoluzione della patologia è
condizionata dall’incremento o dall’aggravarsi dell’esposizione; per la
seconda, invece, una volta assunta la dose killer, l’evoluzione della malattia
è indifferente alle possibili ulteriori esposizioni alla sostanza nociva. È
chiaro che le due leggi scientifiche che si fronteggiano hanno conseguenze
assai diverse in tema di nesso causale e delle conseguenti responsabilità. Se
si accetta la
tesi della dose killer,
per dichiarare la responsabilità è necessario individuare il soggetto titolare
delle posizioni di garanzia nel periodo dell’esposizione che ha innescato la
malattia; se si accetta la tesi della
patologia
dose-dipendente, tutti i datori di lavoro che hanno provocato l’esposizione
del lavoratore all’amianto, anche successivamente all’innesco della patologia,
saranno chiamati a rispondere quanto meno della riduzione del periodo di latenza
della malattia”.
La
Corte nella sentenza suddetta ( sentenza
Quaglierini)
ha ritenuto di stabilire “che il giudice di merito, quando si trovi dianzi a
leggi scientifiche contraddittorie, deve specificamente motivare le ragioni dell’adozione di una
piuttosto che di un’altra legge, spiegando perché abbia deciso di adottarla”. E
se il criterio principale dell’accertamento causale, secondo la sentenza
Franzese, è quello della “elevata credibilità logica e razionale” escludendo
l’esistenza di possibili cause alternative nella produzione dell’evento, si
dovrebbe “concludere che, in mancanza della dimostrazione dell’attendibilità
della legge scientifica adottata” si imporrebbe l’assoluzione degli
imputati.
In
realtà “quando non esiste una legge universale che consente di stabilire con
certezza le cause di un determinato evento, inevitabilmente si apre il
ricorso alle leggi statistiche e alle
rilevazioni epidemiologiche. Molto si è discusso sulla validità di questi
strumenti nella ricostruzione del nesso di causalità. Non vi è dubbio che le
leggi statistiche di per sé non sono in grado di ‘spiegare’ i fenomeni, ma solo
di ‘enumerarli’. E dunque non sono utili per individuare o definire i possibili
nessi causali. Le rilevazioni epidemiologiche, invece, sono rilevanti quando si
cerchi la spiegazione dell’ipotetico nesso causale proprio nell’elaborazione
degli studiosi dei fenomeni patologici”.
Dunque
molti traggono la conclusione “che l’utilizzo delle leggi statistiche e delle
rilevazioni epidemiologiche determina inevitabilmente la violazione del
principio della personalità della responsabilità penale perché trascura il
rigoroso accertamento della causalità individuale”.
E
tale rilievo trova espressione soprattutto “nelle critiche a quella
giurisprudenza che, in larga maggioranza, ha accolto la tesi della
dose-dipendenza del mesotelioma pleurico: si sostiene in sostanza che la
spiegazione causale della riduzione della latenza del mesotelioma fondata
sull’aumento delle dosi di esposizione non poggia su alcuna certezza
scientifica. Si aggiunga che sul piano scientifico si discute anche in ordine
al tipo di fibre che hanno funzione scatenante e taluno è arrivato a sostenere
che solo le fibre ultrafini ed ultracorte hanno la capacità di innescare il
meccanismo patogenetico nella pleura. Tesi che è vivacemente controbattuta da
altri”.
Riguardo
al
mesotelioma, è opportuno rilevare
che “la giurisprudenza nella sua quasi totalità ha escluso che ai fini della
responsabilità penale debba essere individuato il periodo in cui è stata
inalata la dose killer che ha scatenato la patologia. I giudici finora, sulla
scorta di imponenti rilevazioni epidemiologiche, hanno concluso che è possibile
contrarre la malattia anche in presenza di piccole dosi e in periodi diversi e
non necessariamente all’inizio dell’esposizione lavorativa. Ed è anche il caso
di ricordare che
nella letteratura
scientifica le tesi relative alla dose killer e alla dose-indipendenza del
mesotelioma sono largamente minoritarie”.
Riguardo
al
tema della colpa si segnala che
“ogni formulazione delle regole cautelari da parte del legislatore implica una
valutazione discrezionale in ordine alla prevedibilità dell’evento. Ed era
pertanto inevitabile che, di fronte alla comprovata associazione tra l’ impiego dell’amianto ed eventi dannosi per la salute, il
legislatore dettasse regole e cautele per l’attività lavorativa in presenza di
amianto. Queste cautele dovevano essere rispettate anche nell’ignoranza o
nell’incertezza scientifica riguardante la produzione di taluni eventi”.
Oggi non ci si può
dunque più difendere “dicendo che il mesotelioma non era evento prevedibile”. E invece nei
processi penali per le morti da mesotelioma “si continua a sostenere che i
datori di lavoro nel momento in cui omettevano le cautele previste dalle norme
cautelari non erano in grado di conoscere la connessione tra amianto e mesotelioma”.
Questione
poi diversa è quella di “esaminare l’
efficacia
impeditiva in astratto delle regole di condotta imposte dalla norma. Non
solo è importante la spiegazione causale, ma anche la risposta alla domanda se
il comportamento alternativo del soggetto avrebbe nelle condizioni date
impedito l’evento”.
C’è
chi sostiene che “l’evento mesotelioma sarebbe stato comunque inevitabile per
l’inefficacia delle cautele previste ad intercettare le polveri ultrafini ed
ultracorte”, affermazioni queste “tutt’altro che dimostrate”. Mentre invece gli
igienisti industriali “hanno dimostrato che una semplice mascherina per le
polveri, di quelle usate negli anni settanta, sarebbe stata in grado di
catturare mediamente il 70% delle polveri
di amianto
presenti nelle lavorazioni di coloro che manipolavano la sostanza”.
Rimandando
i lettori ad una lettura integrale del saggio, veniamo ad alcune
considerazioni conclusive dell’autore.
La
giurisprudenza ha riconosciuto che i
datori
di lavoro, “per le conoscenze del tempo, dovessero avere consapevolezza
della pericolosità dell’amianto per le vie respiratorie, anche senza conoscere
con precisione il meccanismo causale della produzione dell’evento dannoso.
Non occorre per ritenere integrata la colpa
- ha affermato la Cassazione -
, la
rappresentazione dell’evento morte, ma è sufficiente che l’agente fosse in
condizioni di prefigurare un danno grave alla salute o alla vita”.
Non
è facile nei processi per le morti da amianto “accertare tutti gli elementi
necessari per affermare la responsabilità penale. Ma, fino a che i parametri
della colpa e della causalità continuano a governare il nostro processo penale,
è necessario acquisire un grado di
certezza e probabilità razionale tale da giustificare la pronunzia di
responsabilità. Senza fughe laterali, come quelle che imputano la vera
responsabilità delle morti da amianto al ritardo del legislatore statale nel
disciplinare la materia dell’amianto o all’inerzia delle istituzioni. Può darsi
che vi siano stati ritardi o qualche lentezza. Comunque se lentezza vi è stata,
essa non può costituire un alibi per coloro che ricoprivano posizioni di
garanzia della salute dei lavoratori ed erano tenuti ad osservare le norme
cautelari”.
La
conclusione dell’autore è che “il processo penale non può venir meno al suo
compito essenziale che è quello di accertare i fatti e di affermare la
responsabilità penale tutte le volte che i parametri della causalità e della
colpa consentano di raggiungere conclusioni certe e razionali”.
Olympus
- Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e
giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, “ Causalità
e colpa nella responsabilità penale nei reati di infortunio e malattia
professionale”,
a cura di Beniamino Deidda (ex Procuratore Generale della Repubblica presso la
Corte d’Appello di Firenze), in Working Papers di Olympus 19/2013 (formato PDF,
175 kB).
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