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"Inidoneità e idoneità: il mantenimento della mansione e del posto di lavoro"
fonte www.puntosicuro.it / Salute
19/07/2013 - Prima di venire a
considerare le possibilità di adibizione del
lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, dobbiamo richiamare le
decisioni costituzionali poste a presidio di alcuni beni fondamentali:
– il
diritto al lavoro (art. 4)
“La Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto”; (art. 5)
“La repubblica tutela il lavoro in tutte le
sue forme ed applicazioni”;
– il
diritto ad una esistenza libera e dignitosa per sé e per la
famiglia (art. 36)
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità ed alla qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”;
– il
diritto alla salute, tutelata come bene fondamentale dell'individuo
e interesse della comunità (art. 32)
“ La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Questo per dire che il contratto di
lavoro, prima che una fonte di rapporti obbligatori, è, secondo le Sezioni
Unite della Cassazione [1],
"un
programma di comportamento tra le parti".
Il che definisce nella forma più
ampia e più alta lo stesso principio della corrispettività delle prestazioni;
senza per ciò incidere sul diritto datoriale a fare impresa e sul sinallagma
contrattuale (lo scambio, la reciprocità delle prestazioni).
L'art. 41 del Dlgs. 81/08, al comma 6, stabilisce che il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche per la sorveglianza sanitaria, "esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
L'art. 41 del Dlgs. 81/08, al comma 6, stabilisce che il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche per la sorveglianza sanitaria, "esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
- idoneità;
- idoneità parziale, temporanea o
permanente, con prescrizioni o limitazioni;
- inidoneità temporanea;
- inidoneità permanente.”
Il successivo comma 7 decide che nei
casi di inidoneità temporanea vadano specificati i limiti temporali di validità
del giudizio.
In realtà sarebbe opportuno
intervenire sulla norma, allargando l'obbligo di specifica anche all'idoneità
parziale temporanea. Non tanto e non solo perché, secondo logica, ciò accade
già nella pratica; quanto, piuttosto, perché la stessa idoneità con prescrizioni comporta il rischio della
risoluzione del rapporto di lavoro [2].
L'art 42 (Provvedimenti in caso di
inidoneità alla mansione specifica) stabilisce che:
1. Il datore di lavoro (...) in
relazione ai giudizi di cui all'articolo 41, comma 6,
attua le misure
indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla
mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni
equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento
corrispondente alle mansioni di provenienza".
Pare evidente una contraddizione tra
la titolazione dell'articolo, che tratta dei provvedimenti nel (solo) caso di
giudizio di inidoneità, col suo contenuto. Il quale invece tratta dei
provvedimenti da attuarsi
“in relazione ai giudizi" diversi
dall'idoneità piena.
La sostanza però che ci interessa, è
che l'art. 42 assicura perentorietà alle
prescrizioni [3]
poste dal medico competente; stabilendo nel contempo l'obbligo
per il datore
di lavoro di darne
attuazione.
Se così non fosse, anche la
prescrizione più lieve potrebbe venir messa in discussione (con riguardo
all'organizzazione aziendale).
Col risultato, mi sembra, di
pregiudicare l'intero istituto del giudizio di idoneità. Oltre che stridere immediatamente
con l'art. 3 della legge 604/66 [4] (Norme
sui licenziamenti individuali):
"Il licenziamento per giustificato
motivo (...) è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali del prestatore di lavoro...".
Si tratta certo di non trascurare il
contemperamento dei diversi interessi, costantemente richiamato dalla Corte di
Cassazione
(“(...) interessi protetti a livello costituzionale, i quali devono
essere bilanciati in sede di interpretazione della legislazione ordinaria” -
Cass. S.U., sent. cit.)
Tuttavia una lettura di senso, oltre
che letterale, dell'art. 42, porta a ritenere che solo qualora le misure
indicate dal medico competente, prevedano un'inidoneità alla mansione
specifica, il datore di lavoro adibisca, se possibile, il lavoratore ad altra
mansione; compatibile con le sue condizioni e con la (necessaria) valutazione
del M.C.
Nel caso invece di un giudizio di idoneità con prescrizioni (temporaneo o
permanente che sia), l'art. 42 non obbliga al tentativo di cd.
repechage. Ma, tanto più, quindi, non
consente la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo.
Il datore di lavoro che intendesse
comunque operare questa scelta, si porrebbe in violazione dell'art. 2087 del
codice civile [5]
(5), il quale decide che egli adotti
"nell'esercizio dell'impresa le
misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica,
sono necessarie a garantire l'integrità fisica e la personalità morale del
lavoratore". Si esporrebbe dunque (anche) all'obbligo risarcitorio in
sede di processo civile.
Certamente siamo in presenza di un
contrasto con l'art. 1464 c.c. (Impossibilità sopravvenuta parziale):
"quando
la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l'altra
parte... può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse
apprezzabile all'adempimento parziale”.
Meno, mi pare, con l'art. 41 della
Costituzione. Il quale certo garantisce la libertà di iniziativa economica
dell'imprenditore ( e dunque di organizzazione dell'impresa), ma a condizione
che questa non si ponga in contrasto con l'utilità sociale, o in modo da recar
danno all'integrità fisica e alla personalità morale del lavoratore. Questa
previsione esce rafforzata - se possibile - dal dettato dell'art. 32 della
Costituzione, laddove la tutela della salute quale bene indisponibile
rappresenta - in nesso inscindibile - un diritto dell'individuo lavoratore e un
interesse della collettività.
Rispetto a tali contrasti - se
riconosciuti - deve decidere il legislatore ( in genere dopo un
consolidamento giurisprudenziale);
anche se, a temperamento della "potenza" dell'art. 1464, si pone
l'art. 1455 c.c. (Importanza dell'inadempimento):
“Il contratto non si può
risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto
riguardo dell'interesse dell'altra".
Il giudice di merito sarebbe
chiamato, nel caso, a valutare anche questo aspetto.
Del tutto differente è la condizione
che veda il lavoratore oggetto di giudizio di inidoneità da parte del medico
competente.
In questo caso funge da spartiacque
la richiamata
sentenza della Corte di
Cassazione a Sezioni Unite n. 7755 del 7 agosto 1998.
Il giudice di legittimità ha in
quella circostanza stabilito che la sopravvenuta inidoneità alla mansione
specifica non costituisce di per sè stessa un giustificato motivo di
licenziamento. Il datore di lavoro dovrà invece, secondo un criterio di
correttezza e di buona fede [6],
attivarsi per verificare se sia possibile - senza dover stravolgere
l'organizzazione aziendale - adibire il lavoratore ad altra mansione, anche
inferiore.
Solo quando questo onesto tentativo
non dovesse avere successo, il datore di lavoro potrà procedere alla rescissione
del contratto. Ché, anzi, a quella decisione sarebbe tenuto proprio in rispetto
dell'art. 2087.
È chiaro che in eventuale sede
giudiziaria di impugnazione, il datore di lavoro dovrà dimostrare di aver
correttamente svolto il tentativo cd. di ripescaggio.
Il lavoratore, a tal punto, avrà
l'onere di dimostrare
"specificamente" come in realtà siano
presenti (se effettivamente presenti) le condizioni per la sua adibizione a una
diversa mansione.
Naturalmente senza che questo debba
implicare uno stravolgimento dell'organizzazione aziendale, ad es. attraverso
la creazione di una mansione ad hoc, oppure lo spostamento di un altro
lavoratore, oppure l'adozione di misure organizzative e tecniche per
"garantire" comunque la permanenza nella mansione.
Qui bisogna però, a mio avviso,
operare la
distinzione tra una
sopravvenuta inidoneità temporanea ed
una
permanente.
Nel primo caso il datore di lavoro
dovrà procedere pur sempre alla ricerca di una mansione alternativa cui adibire
il lavoratore.
Nel caso non risultasse alcuna
mansione disponibile, il datore di lavoro potrà procedere alla sospensione dal
lavoro e dalla retribuzione [7]; ma non
al licenziamento del lavoratore per giustificato motivo.
È fatto salvo, infatti, il diritto
del lavoratore giudicato (anche) inidoneo temporaneamente di porre ricorso,
avverso il giudizio del medico competente, all'organo di vigilanza
territorialmente competente (art. 41, c. 9, D.Lgs. 81/2008).
Nel caso la commissione medica ex
art. 41 modifichi il giudizio in uno di quelli di idoneità, il lavoratore dovrà
immediatamente venire riammesso al lavoro e potrà agire giudizialmente in
rivalsa per il recupero delle spettanze durante tutto il periodo di
sospensione.
Ciò vale anche in caso di inidoneità
permanente. Con la specifica che in nessun caso il datore di lavoro potrà
procedere al licenziamento per giustificato motivo, prima che siano trascorsi
sia i 30 giorni stabiliti per la facoltà del ricorso, sia - una volta posto il
ricorso - il tempo necessario perché l'organo di vigilanza esprima il proprio
giudizio, a conferma o modifica di quello espresso dal medico competente. Da rilevare che il giudizio della
commissione è sovraordinato rispetto a quello del medico competente. Potrà
eventualmente venire sostituito da diverso giudizio in sede di successiva
visita:
– periodica;
– su richiesta del lavoratore;
– nel caso di cambio della mansione;
– al rientro da malattia o
infortunio di durata superiore ai 60 giorni continuativi.
È dato di esperienza che la
stragrande maggioranza degli infortuni e delle malattie professionali siano occorsi con violazione delle
norme antinfortunistiche e di igiene del lavoro.
In questo caso il lavoratore può
chiedere il risarcimento, per le menomazioni subite, attraverso:
– l'instaurazione di un processo
civile;
– esercitando l'azione civile nel
processo penale.
“Il processo penale è
tendenzialmente più celere e vi è la possibilità di ottenere già direttamente
in sentenza una somma che il responsabile è obbligato a versare immediatamente
(cd. provvisionale)”
(M. Del Nevo).
Da qui la nuova
incidenza dell'art. 61 del D.Lgs. 81/08 (Esercizio dei diritti
della persona offesa) nello stabilire che:
1. In caso di processo penale per i
delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è
commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia
professionale, il pubblico ministero ne dà immediata notizia all'INAIL ai fini
dell'eventuale costituzione di parte civile e dell'azione di regresso;
2. Le organizzazioni sindacali e le
associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro [..o di
malattie professionali!] hanno facoltà di esercitare i diritti e le facoltà
della persona offesa... con riferimento ai reati commessi con violazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del
lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
Nella pratica - ma sto semplificando
- l'
azione risarcitoria verrà svolta
dall'INAIL. Sia per la copertura dell'inabilità temporanea assoluta che per il
ristoro del danno cd. biologico (ad eccezione della zona in franchigia,
collocata dall'1 al 5% di punteggio d'invalidità).
Il datore di lavoro, nel caso di riconoscimento della responsabilità, dovrà perciò subire l'azione di
rivalsa (“in regresso”) dell'INAIL.
Il lavoratore potrà inoltre, in
aggiunta, promuovere/intentare l'azione risarcitoria -spesso risolta
conciliativamente - rispetto alla cd. “quota differenziale” del danno biologico
(in tal caso, anche con riguardo alla quota di inabilità collocata in
franchigia).
Quello che però preme porre in
evidenza, è il dolente,
irrisolto
problema dei lavoratori i quali abbiano - in conseguenza di violazione
delle norme poste a tutela di SSL - patito una menomazione non totalmente (o
gravissimamente) invalidante e tuttavia sufficiente a giustificare la non
idoneità alla mansione [8].
In questo caso, dice la
Costituzione, è la Repubblica (e dunque il legislatore) che deve farsi carico
della tutela del bene costituzionalmente protetto (nel caso qui in esame, il
lavoro per il lavoratore). Coadiuvata dai giudici di merito e di legittimità.
E, si spera, prima o poi, anche dal giudice delle leggi.
Pietro
Ferrari
Dipartimento Salute
Sicurezza Ambiente Camera del Lavoro di Brescia
[1]
Cass. Sez. unite, sentenza 7755/98
[2]
Come - a differenza che nel passato - ci stanno oggi mostrando le pratiche
malsane della crisi; stiamo dunque parlando di licenziamenti, a mio parere,
illegittimi. E dunque da impugnare.
[3]
Concordo con M. Del Nevo che “
il
"significato" fondamentale dei giudizi di idoneità espressi dal
medico competente è pertanto quello di "prescrizioni di pericolo":
...". E che il mancato rispetto
di tali prescrizioni comporta "
"prevedibile" pericolo per la
salute del lavoratore" (va reso evidente che il concetto di
prevedibilità rappresenta criterio per l'individuazione della colpa). Concordo
dunque che "
Le "idoneità con limitazioni", non avendo nessuna copertura
legale, non hanno alcun valore
(art.
23 Costituzione)".
[4]
In quanto legge speciale sulla
materia, che, con l'art. 3, specifica i contenuti generali dell'art. 1455 c.c.
[5]
Diversamente che per il giudizio di inidoneità; rispetto al quale le Sezioni
Unite, nella richiamata sentenza del 1998, hanno deciso che
"(...) alla
questione relativa al licenziamento [per inidoneità]
, rimane estraneo
l'art. 2087 (...) che impone all'imprenditore obblighi di tutela dell'integrità
fisica e della personalità morale del prestatore una volta che a questo siano state assegnate le mansioni".
[6]
Lo stabiliscono gli artt. 1175
(Comportamento secondo correttezza), 1366 (Interpretazione in buona fede) e
1375 (Esecuzione in buona fede) del codice civile. I quali, rispettivamente,
recitano:
–
Il debitore e il creditore
devono comportarsi secondo le regole della correttezza.
– Il contratto deve essere
interpretato secondo buona fede.
– Il contratto deve essere eseguito secondo buona
fede.
[7]
O secondo accordo tra le parti: ferie, permessi ROL, sospensione retribuita.
[8]
Altro
punctum dolens
(sul quale, per fortuna, sta intervenendo la giurisprudenza della Cassazione) è
rappresentato dall'ipotesi in cui la condizione menomativa - accaduta con
violazione delle norme in materia di SSL - porti al superamento del periodo di
comporto. Il “comporto” - per semplificare - è il periodo massimo stabilito
dalla contrattazione collettiva per la conservazione del posto di lavoro.
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