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"Sull’obbligo di valutare i rischi anche per un impianto in disuso"
fonte www.puntosicuro.it / Normativa
26/08/2013 -
Commento a cura di G. Porreca.
La sentenza della Corte di Cassazione penale in esame riguarda quei
casi, anche abbastanza frequenti, che possono verificarsi in una
azienda allorquando nell’ambito della stessa vi siano delle aree o degli
impianti che, pur se sono in disuso, risultano comunque essere
accessibili ai lavoratori che operano nella stessa e da questi
frequentabili. In questi casi la valutazione dei rischi,
secondo quanto ha sostenuto la suprema Corte, deve essere estesa anche a
tali aree o impianti specie se questi possono essere fonte di pericolo
per i lavoratori e necessitano pertanto di opportuni interventi per la
loro eliminazione. Il luogo di lavoro di cui al caso in esame era una
vasca contenente della trielina dichiarata in disuso dai responsabili
dell’azienda ma nella quale si è potuto comunque introdurre un
lavoratore il quale, investito dai vapori venefici, ha perso la vita.
L’evento, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
L’evento, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
Il Tribunale ha affermata la responsabilità
dell’amministratore delegato e del presidente del consiglio di amministrazione
di una società in ordine al reato di omicidio colposo con violazione delle
norme sulla sicurezza del lavoro con una sentenza di condanna che è stata poi
confermata dalla Corte d'appello. L'evento era accaduto nello stabilimento
della società allorquando il lavoratore, entrato all'interno di una vasca
contenente trielina utilizzata per la pulizia delle maniglie prodotte
dall'azienda, è stato investito da vapori venefici che ne hanno cagionata la
morte. Ai due imputati era stato mosso, in particolare, l'addebito di non aver
formato ed informato il lavoratore e di non aver predisposto le misure tecniche
ed i dispositivi di protezione per governare i rischi connessi all'uso del
solvente in questione.
I due imputati hanno fatto ricorso in cassazione
sostenendo che, secondo quanto emerso dall'istruttoria, l'evento letale si era
verificato in una vasca contenente trielina chiusa con coperchi che hanno
determinato la concentrazione dei vapori e che l'apparato, che veniva
utilizzato solo in passato per pulire le maniglie semilavorate, al momento
dell’evento era in disuso. Il lavoratore in particolare, secondo i ricorrenti,
si era arbitrariamente introdotto nella vasca senza che ciò attenesse in alcun
modo alle lavorazioni che gli erano affidate. Gli stessi hanno sostenuto che la
pulizia con la trielina avveniva in altro stabilimento il che rendeva ancora
più inverosimile l'ipotesi che la vittima avesse fatto uso della vasca per
procedere alla pulizia di manufatti, tanto più che la trielina, per esercitare
la sua azione pulente aveva bisogno di essere scaldata. La vittima era altresì
magazziniere e non aveva incombenze afferenti alla pulizia dei manufatti oltre
al fatto che in realtà erano rimaste ignote le cause del decesso e che non si
fosse compreso perché il lavoratore fosse entrato nella vasca. In definitiva,
hanno sostenuto gli imputati, essendo l'apparato fuori uso, non incombeva su di
loro alcun obbligo di formazione ed informazione tanto più che la vasca era in
sicurezza con l'apposizione di idonei coperchi.
Le decisioni della
Corte di Cassazione
I ricorsi sono stati ritenuti infondati e quindi
rigettati dalla Corte di Cassazione. La stessa ha dichiarato in merito che “
il datore di lavoro è chiamato alla
valutazione ed al governo dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro. Il
rischio, d'altra parte, è già connesso alla sola presenza in azienda di
sostanze letali o nocive” e che “
nel
caso di specie è emerso che mancava un programma di sicurezza; che il rischio
trielina non era stato eliminato e che la vasca in cui la sostanza si trovava
non era stata messa in sicurezza; che non era segnalata la presenza della sostanza
medesima; che non era stata fornita alcuna formazione ed informazione ai
lavoratori”. Tali violazioni, ha aggiunto la Sez. IV, sussistevano anche se
l'impianto fosse stato in disuso, posto che la zona era frequentata dai
lavoratori e che erano presenti 200 litri della sostanza per cui in definitiva
il rischio esisteva e non era stato in
alcun modo governato. D'altra parte, ha messo in evidenza la Sez. IV, il fatto
che il lavoratore fosse entrato nella vasca indossando due mascherine di
tessuto, totalmente inidonee, aveva costituita la prova che la vittima non era
incosciente ma che non era stata per nulla informata sulla pericolosità della
sostanza e sul rischio di morte.
L’ipotesi, inoltre, che il lavoratore stesse comunque
compiendo un'operazione che si effettuava saltuariamente in azienda per la
pulitura di manufatti era stata basata su alcuni indizi, come la presenza di
una pedana e l'acquisto di trielina, nonché sulle dichiarazioni della moglie
della vittima che aveva riferito che il marito tornava a casa stordito e sulla
deposizione di un testimone che aveva dichiarato di aver lavorato insieme alla
vittima alla pulizia di alcune maniglie campione per una fiera.
“
Ciò che radica la
responsabilità”, ha così concluso la suprema Corte, “
è che nell'impianto vi era una vasca contenente una sostanza idonea a
produrre vapori altamente tossici; e che il rischio connesso non era per nulla
governato” difettando, altresì, di plausibilità la tesi difensiva secondo
cui la vittima si sarebbe introdotta nella vasca senza alcuna ragione
afferente, in un modo o nell'altro, alle lavorazioni che gli erano state
comandate.
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