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"Imparare dagli errori: la manutenzione di un impianto di una raffineria"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza Macchine ed Attrezzature
24/09/2015 - Generalmente lo scopo di questa rubrica è quello di rilevare e
analizzare gli “errori”, le cause degli incidenti, per poterli evitare
in futuro. Magari, quando possibile, offrendo anche strumenti
informativi utili per affinare e migliorare le strategie di prevenzione e
di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Tuttavia questa puntata di “ Imparare dagli errori”
ci permette di andare anche oltre la sola rilevazione degli errori e di
dare informazioni, attraverso i risultati delle indagini e del processo
di primo grado, sulle responsabilità connesse al gravissimo incidente
avvenuto all’interno dell’area industriale di un’importante
raffineria di petrolio della
Sardegna sud occidentale: tre operai di una ditta esterna di
manutenzione perdono la vita all’interno di un serbatoio di processo.
Un incidente – precedente all’entrata in vigore del Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177-
che mostra la concatenazione delle cause che portano agli infortuni
mortali, le carenze organizzative e come a volte anche i modelli
organizzativi, “per quanto raffinati, non diano sufficienti garanzie, in
quanto modifiche in corso d’opera di procedure codificate e
comportamenti solo apparentemente imprevedibili possono alterare il
corso degli eventi e la percezione del pericolo da parte dei lavoratori
coinvolti”.
Ad affermarlo è un intervento –
tratto dagli atti dell’8° Seminario di aggiornamento dei professionisti Contarp
“ Dalla
valutazione alla gestione del rischio. Strategie per la salute e la sicurezza
sul lavoro” (Roma, novembre 2013) – dal titolo “
Genesi e sviluppo di un infortunio sul lavoro mortale plurimo.
Riflessioni sulle condizioni di sicurezza” e a cura di F. Di Gangi, G.
Spadaccino, P. Mura e I. Cadeddu (Inail - Direzione Regionale Sardegna -
Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione).
La dinamica dell’incidente
L’azienda di manutenzione
direttamente coinvolta nell’evento “è un consorzio di imprese che all’epoca
dell’infortunio aveva in appalto dalla raffineria l’esecuzione di lavori di
manutenzione (pulizia idrodinamica) di un impianto denominato MHC1
(MildHydroCracking). L’
impianto MHC1
è utilizzato nei processi di idrodesolforazione catalitica di gasoli primari
prodotti nella raffineria al fine di portarli alle specifiche richieste dal
mercato”.
E in particolare le operazioni di
bonifica e manutenzione dell’impianto “erano state programmate in accordo a
quanto specificato nel manuale di manutenzione dell’impianto (Istruzioni di
fermata e bonifica MHC1 nov. 2007)”.
Il 26 maggio 2009 il caposquadra
dell’azienda di manutenzione “A”, “diede istruzioni ai propri operai di
attenderlo sulla strada di servizio, in prossimità dell’impianto MHC1, e quindi
si recò a ritirare alcuni permessi di lavoro relativi all’accumulatore D106. In
realtà non era previsto che quel pomeriggio si dovesse operare su tale
apparecchiatura, ma lo era per i giorni successivi. Comunque si trattava di operazioni
analoghe a quelle già svolte poco prima sugli accumulatori D101 e D102. Dalle dichiarazioni
testimoniali risulta che, mentre il caposquadra era intento a sbrigare queste ‘formalità
amministrative’, un lavoratore dell’azienda di manutenzione, INF A, si
allontanò da solo. Il suo collega (LAV B), non vedendolo, si preoccupò e iniziò
a cercarlo nei pressi dell’accumulatore D106. Salito sulla scaletta che porta
all’imbocco del passo d’uomo diede un’occhiata al suo interno e lo vide sul
fondo dell’accumulatore, con le spalle a terra e le braccia distese
all’indietro. Pensando che fosse svenuto iniziò a chiamare aiuto”. Con
dinamiche diverse “altri colleghi del primo infortunato accorrono per aiutare
il collega” e due di loro (uno di questi indossava una mascherina di protezione
antigas), “entrano all’interno dell’accumulatore e, in pochi secondi, perdono a
loro volta i sensi”. Sarà necessario “l’intervento di due addetti alle
emergenza muniti di autorespiratori con bombole di ossigeno per estrarre i tre
corpi degli infortunati dal serbatoio D106”. I tre operai sono immediatamente
sottoposti alle pratiche di rianimazione, ma dopo quaranta minuti è constatato
l’avvenuto decesso”.
La causa dei decessi
È evidente che nessuno dei
lavoratori infortunati conosceva le “condizioni di pericolo all’interno
del’accumulatore HD106. Non risulta fossero stati informati e formati, né risulta
avessero DPI e rivelatori dedicati. L’assenza di segnaletica che evidenziasse
il pericolo ha indubbiamente favorito la confusione e gli equivoci, come anche
la presenza di una manichetta posta all’interno dell’accumulatore che, senza
alcuna segnalazione specifica, poteva sembrare (e così è, in effetti, stato)
collegata ad un erogatore di aria per il ricambio all’interno dell’accumulatore
e non invece di Azoto. Le analisi dimostrarono che l’atmosfera interna
dell’accumulatore era satura di azoto utilizzato per bonificarne l’interno
proprio dai residui di gas tossici, infiammabili ed esplosivi. Nel sangue dei
tre sfortunati operai non risultarono tracce di inquinanti del petrolio grezzo,
ma soltanto segni di carenza
di ossigeno; le analisi chimiche condotte sul luogo dell’infortunio hanno
accertato che all’interno dell’accumulatore non vi era ossigeno in quantità
sufficiente ad assicurare la sopravvivenza e le perizie medico-legali hanno
evidenziato che la causa della morte dei tre operai è stata originata da ‘asfissia’
per ridotta concentrazione di ossigeno in ambiente confinato (nella
fattispecie, l’accumulatore D106)”.
La sentenza di primo grado e le responsabilità
La sentenza di primo grado del
Tribunale di Cagliari si è espressa sia nei confronti del personale direttivo
della raffineria che dell’azienda di manutenzione (sentenza n° 188/11 del
04/07/2011). In particolare il direttore generale della raffineria e il
direttore delle operazioni industriali “sono stati ritenuti colpevoli dei
delitti ascritti, limitatamente alle condotte colpose, per diverse omissioni di
carattere informativo ed operativo”. Il direttore tecnico e il legale
rappresentante dell’azienda di manutenzione “sono stati ritenuti colpevoli dei
delitti ascritti, limitatamente alle condotte colpose, per non avere fatto un’adeguata
valutazione dei rischi connessi all’ingresso degli accumulatori e avere
predisposto le azioni conseguenti, oltre che per non avere impartito
un’adeguata formazione del proprio personale sui rischi connessi all’ingresso
negli accumulatori; l’azienda di raffinazione è stata esclusa in ordine alla
responsabilità dell’illecito amministrativo contestato per insussistenza del
fatto, in quanto il reato non fu commesso nell’interesse o a vantaggio della
stessa”.
La ricostruzione dei fatti ha in
realtà chiarito che “
gli infortuni
mortali non sono avvenuti in conseguenza del comportamento ‘anomalo’ del primo
infortunato, ma, al contrario, a seguito di una ben chiarita
concatenazione di eventi, alcuni
gestiti in modo superficiale. Il tutto ha avuto inizio con l’apertura del passo
d’uomo del D106, resasi obbligata da un guasto meccanico (difficoltà nel disserraggio
della flangia inferiore dell’accumulatore); questo imprevisto evento ha
innescato la catena, che è continuata quando è stato deciso di modificare la
consueta procedura di bonifica utilizzando azoto in luogo del vapore (perché il
vapore avrebbe comportato condizioni di pericolo per gli operai che stavano
completando la ciecatura)”.
Dunque una decisione non
predeterminata e gestita in modo scorretto nelle successive fasi: se i rischi
da ambienti confinati erano stati previsti nel DVR, “non era al contrario stata
prevista la nuova procedura utilizzata che prevedeva la bonifica
con azoto e non erano stati valutati i nuovi rischi. Le mutate condizioni
dell’accumulatore D106 divennero tali da renderne l’atmosfera irrespirabile, e
quest’aspetto avrebbe dovuto prevedere, secondo la sentenza, l’adeguamento del
DUVRI, cosa non avvenuta”. In particolare sarebbe stato necessario “implementare
un sistema organizzativo che portasse tali modifiche procedurali a conoscenza
dei soggetti incaricati della valutazione del rischio, in modo che fosse reso
possibile aggiornare le misure di prevenzione o, quantomeno, prevedere il
rischio dei mutamenti delle procedure di bonifica ed imporre l’uso di idonea
segnaletica di sicurezza; in tale circostanza è emerso che i permessi di lavoro
adottati come strumenti autorizzativi ed informativi non sono risultati idonei,
singolarmente, a surrogare l’assenza o il non aggiornamento di un DUVRI”.
Inoltre secondo il giudice
sarebbe stato necessario “
verificare la
necessità o meno di misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle previste
dagli strumenti di valutazione adottati”.
Una violazione fondamentale è stata
la “
mancata segnalazione del pericolo
esistente all’interno dell’accumulatore D106”. La normativa sulla sicurezza prevede
inoltre la “predisposizione della segnaletica come obbligo principale e le
altre misure organizzative alternative come eccezione, ancorché in taluni casi
ciò può essere derogato (è il caso dei permessi di lavoro); tale eccezione
normativa, non appare applicabile al caso in questione, in quanto alla base vi
è, non già la mancata segnalazione del pericolo, ma bensì la già citata, e non
eseguita, valutazione del rischio a seguito della variazione della procedura di
bonifica e quindi la non conoscenza del pericolo”. E prevedere che per “forza maggiore
e/o cause eccezionali” un lavoratore potesse introdursi nell’accumulatore D106
era un obbligo del datore di lavoro. E a parere degli autori dell’intervento “sarebbe
stato necessario impedire fisicamente l’accesso al passo d’uomo. Non potendo
riposizionare il portello, sarebbe stato pertanto necessario provvedere al suo
ripristino oltre che ad un sistema di chiusura sicura, rendendo di fatto
impossibile a chiunque l’ingresso (ad eccezione delpersonale della raffineria
preposto alla consegna lavori)”.
L’intervento segnala poi che il POS
(
Piano Operativo della Sicurezza),
adottato dall’azienda direttamente coinvolta nell’evento infortunistico, “si è
dimostrato non esente da difetti, soprattutto per la parte relativa ai rischi
da ambienti
confinati, malgrado che la pulizia idrodinamica dovesse essere effettuata all’interno
di serbatoi industriali. Si osserva peraltro con rammarico che un’integrazione al
POS, corretta e a detta del giudice esaustiva, è stata redatta (secondo la
sentenza) in data successiva all’evento infortunistico. Se fosse stato adottato
per tempo, è possibile che almeno i due lavoratori successivamente infortunati
avrebbero mostrato maggior cautela nell’intervenire per salvare il compagno, e
così facendo avrebbero potuto salvarsi la vita”.
La prevenzione
Alla luce di quanto affermato
quale sarebbe stato allora il corretto metodo operativo, valido come approccio
generale?
Per gli ambienti confinati “si
può immaginare un semplice schema i cui principi sono alla base di una corretta
valutazione e gestione del rischio:
-
coordinamento in fase di esecuzione dei lavori: le modifiche in
corso d’opera possono introdurre nuovi pericoli e rischi associati; è
determinante che queste informazioni arrivino alle persone addette al
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzioni dei lavori;
-
corretta segnalazione di pericolo negli ambienti confinati: quale
che sia l’organizzazione del lavoro, non si può prescindere da un sistema che
permetta a tutti i lavoratori, anche quelli estranei alle attività lavorative
previste in detti ambienti, di essere informati della presenza di eventuali
pericoli mortali;
-
interdizione dell’accesso per gli ambienti confinati: quando gli ambienti
confinati non sono oggetto di lavorazioni, devono essere segregati a
prescindere dal tipo di pericolo in essi presente (lockout-tagout nella cultura
anglosassone). In questo modo si evita tout court: che un lavoratore ‘non
autorizzato’ o ‘non addetto ai lavori’, possa entrarvi ed infortunarsi; che
altri lavoratori possano a loro volta infortunarsi nel tentativo di prestare
soccorso improvvisato;
-
formazione e informazione dei lavoratori: i pericoli e i rischi
presenti negli ambienti confinati devono essere conosciuti in tutti i loro
aspetti e i corretti comportamenti devono diventare meccanismi automatici”.
E, come già indicato in apertura,
gli errori commessi dai protagonisti di questa vicenda “dimostrano come a volte
modelli organizzativi, per quanto raffinati, non diano sufficienti garanzie, in
quanto modifiche in corso d’opera di procedure codificate e comportamenti solo
apparentemente imprevedibili possono alterare il corso degli eventi e la
percezione del pericolo da parte dei lavoratori coinvolti”. E gli autori
ritengono che “l’apparente eccesso di cautele sia garanzia efficace di
riduzione dei rischi in sistemi di lavoro complessi come quello analizzato,
dove elevata è soprattutto la probabilità di rischi interferenti”.
Alla luce di incidenti come
questo “sarebbe opportuno che nelle lavorazioni ad elevato rischio
infortunistico, il ‘principio di ridondanza’ dei sistemi di sicurezza sul
lavoro divenisse la norma”.
“ Genesi
e sviluppo di un infortunio sul lavoro mortale plurimo. Riflessioni sulle
condizioni di sicurezza” e a cura di F. Di Gangi, G. Spadaccino, P. Mura e
I. Cadeddu (Inail - Direzione Regionale Sardegna - Consulenza Tecnica Accertamento
Rischi e Prevenzione), intervento all’8° Seminario di aggiornamento dei
professionisti Contarp (formato PDF, 97 kB).
Tiziano Menduto
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