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"Imparare dagli errori: dinamica e cause dell’incidente di Seveso"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza sul lavoro
25/10/2012 - Ci sono incidenti storici che hanno costituito uno spartiacque nella
storia della prevenzione dei rischi. Incidenti che hanno fornito molte indicazioni
ai legislatori, a livello nazionale e comunitario, per le normative sui rischi di
incidente rilevante connessi la presenza di sostanze
pericolose. Uno di questi è sicuramente il grave incidente avvenuto nel
1976 che ha riguardato il territorio di Seveso, nella Brianza lombarda, e un’azienda
chimica di Meda, l’Icmesa.
Il
10 luglio 1976 dall’Icmesa iniziò la
fuoriuscita
di una nube tossica, una nube che conteneva diossina del tipo TCDD (sottoprodotto
nella preparazione del triclorofenolo), una sostanza tossica molto pericolosa.
Per
parlare dell’
incidente di Seveso
cercando di comprenderne la dinamica, riprendiamo la presentazione di un
intervento raccolto negli
atti del
convegno SAFAP 2010, un convegno che ha affrontato lo “stato dell’arte” del
settore delle attrezzature
a pressione e gli aspetti emergenti, teorici e applicativi, le nuove
metodiche e le esperienze nell’applicazione della legislazione vigente.
In
“
Pressure Equipment Risk Analysis Learning
from Accident”, a cura di G. Mulè e G. Mulè, si ricorda che l’incidente del
1976 a Seveso portò alla ribalta uno dei prodotti più tossici mai fabbricati
nella storia dell’industria.
In
un capannone dell’Icmesa “il disco di rottura installato su reattore chimico
cedette lasciando fuoriuscire una nube di vapore che raggiunse l’altezza di 40
m e inquinò 270 ettari di terreno”.
Nell’impianto
nel quale avvenne l’incidente si produceva il “triclorofenolo, T.F.C., per
idrolisi dell’1, 2, 4, 5, – tetraclorobenzolo (T.C.B.) con NaOH a pressione
atmosferica e in presenza di glicole etilenico”.
Dopo
aver descritto le operazioni che si dovevano compiere per arrivare al
triclorofenolo (tra
i
sottoprodotti è segnalata la tetracloroparadibenzodiossina, TCDD) si indica che
l’incidente “è avvenuto dopo che la
reazione d’idrolisi era stata ultimata e dopo che erano stati allontanati lo
xilene e circa il 15% di glicole, per distillazione. Al termine di queste
operazioni, il riscaldamento era stato sospeso e dopo 15 minuti l’agitazione
fermata. L’ultima temperatura misurata nel reattore fu di 158 °C”.
Riguardo
alle conoscenze di allora si sapeva che:
-
“la temperatura della reazione è cruciale. Se non è mantenuta attentamente a
160 °C il prodotto intermedio può condensare con sé stesso formando T.C.D.D.;
-
i fenoli policlorurati sono instabili alle temperature di 190 °C”.
Veniamo
alla
struttura dell’impianto.
L’
impianto “funzionava a cicli
discontinui ed era suddiviso in due sezioni:
-
la sezione di reazione e acidificazione;
-
la sezione di distillazione, infustaggio e scagliatura”.
In
particolare “nel reattore di idrolisi, munito di agitatore si compivano le
seguenti fasi: il caricamento dei reagenti, la reazione propriamente detta, la
distillazione dello xilolo, la distillazione del glicole, la distillazione
della massa grezza con acqua”.
Vi
rimandiamo alla lettura dell’intervento che riporta le specifiche del reattore,
collegato sia al circuito sfiati (serviva a riportare a pressione
atmosferica le apparecchiature), le caratteristiche del sistema di caricamento (non
era meccanizzato né automatizzato), del “barilotto di riflusso dei liquidi
condensati” (privo di controllo di livello).
Dopo
l’incidente fu accertato che “
nel
reattore si erano verificate reazioni di elevata
esotermicità che avevano provocato una decomposizione spinta delle
sostanze organiche e un aumento di pressione oltre i limiti di resistenza del
disco stesso”. Tuttavia i
consulenti
di parte “sostennero che la miscela contenuta nel reattore di Seveso non
poteva essere interessata da reazioni esotermiche (un fenomeno esotermico è un fenomeno
fisico o chimico che avviene con sviluppo di calore, ndr) fino alla temperatura
di 225-230 °C. Pertanto, poiché detta miscela, al momento della sospensione, si
trovava alla temperatura di 158 °C e, poiché con il sistema di riscaldamento
con vapore saturo a 12 ate (unità di misura della pressione, ndr) e 191 °C non
sembrava possibile che, all’istante della sospensione, la temperatura della
parete interna del reattore a contatto con il liquido potesse superare i 180
°C, non risultava spiegabile l’evento, alla stregua delle conoscenze dell’epoca”.
Successive
prove “hanno confermato l’insorgere
di un primo picco esotermico a 180 °C”: la miscela “oltre 180 °C era in grado
di autoriscaldarsi in condizioni adiabatiche (trasformazione che avviene senza scambi
di calore con l’esterno, ndr), fino a 230-250 °C in un tempo sorprendentemente
vicino al tempo reale dell’incidente di Seveso”.
Il
Tribunale di prima istanza, “quindi,
ritenne ampiamente dimostrato che “lo stato delle conoscenze, all’atto della
progettazione dell’impianto, alla data della decisione di riprendere la
produzione, all’atto dell’incidente, era tale da consentire di:
-
sapere che nell’idrolisi alcalina del T.B.C. potessero verificarsi reazioni di
decomposizione incontrollabili con contaminazione del contenuto del reattore;
-
che tali reazioni potessero avere inizio anche a temperature comprese tra i 165
e i 180 °C;
-
che sopra i 190 °C i policlorofenoli potessero dar luogo a reazioni
esplosive;
-
che gli incidenti pregressi avevano mostrato l’esigenza di dotare gli impianti di
diversi sistemi di controllo estremamente automatizzati”.
Si
ritenne dunque che
molte fossero le cautele da adottare e non adottate per
prevenire l’incidente e che ad aggravare la situazione di insicurezza abbia
contribuito tutta una serie di
manchevolezze
accessorie, in particolare:
-
“la strumentazione ed i sistemi di controllo delle pressioni, delle
temperature, dell’acidità e simili erano molto limitati, e ciò perché era
decisamente insufficiente il numero dei parametri controllati, e mancava, inoltre,
ogni sistema automatico di allarme e di intervento per la sicurezza;
-
la rilevazione della temperatura in un unico punto era assolutamente
insufficiente e, comunque, non era collegato ad alcuno strumento di controllo;
-
il collegamento del reattore all’atmosfera che costituiva, nelle condizioni
operative adottate a Meda, l’unico fattore di sicurezza, era da considerarsi
come non inserito in un sistema organico di prevenzione, perché avrebbe dovuto
essere a flusso convogliato ad adeguate apparecchiature di abbattimento;
-
la realizzazione dell’impianto di Meda, considerato degli stessi responsabili
impianto pilota, era inadeguato alla elevata pericolosità del procedimento,
soprattutto in considerazione delle carenze dal punto di vista della strumentazione,
dei sistemi di
allarme e dei dispositivi di sicurezza;
-
non esistevano disposizioni precise e scritte circa la modalità di esercizio,
oltre quella che riguardava la carica dei prodotti, il prelievo dei campioni e
lo scarico dei residui”; “le istruzioni importanti di processo venivano
impartite solo per via orale e in modo generico”.
Il
collegio ritenne inoltre che:
-
“
si doveva provvedere all’installazione
dei necessari automatismi di allarme, di controllo e di intervento ritenuti
di
rilevante diffusione nel mondo
industriale anche con riferimento a produzioni certamente più tranquille di
quelle dell’ICMESA;
-
nel caso di specie, infatti, detti strumenti potevano essere installati in modo
tale da far intervenire elementi di blocco o di allarme per il personale nel
caso di raggiungimento di una temperatura limite considerata pericolosa;
-
in particolare ben avrebbe potuto essere previsto un
automatismo che consentisse di bloccare l’immissione del vapore o che
facesse entrare in funzione automaticamente il sistema di raffreddamento
attraverso l’introduzione di acqua nell’apposito serpentino o, al limite, nella
massa di reazione;
-
si doveva provvedere ad installare un
impianto
di abbattimento perché necessario e perché realizzabile;
-
viste le condizioni di progettazione e collaudo del reattore e del serpentino
(12 ate e 200 °C), si doveva provvedere ad
eliminare
le condizioni di surriscaldamento in cui il vapore giungeva al reattore, a
temperatura variabili, non controllata e non rilevata da strumenti, ma
calcolabile tra i 300 e 330 °C;
-
i dischi di rottura possono essere preferiti (si suppone alle valvole di
sicurezza), quando si abbiano fluidi di grande valore o di grande tossicità,
quando perdite di qualsiasi entità devono essere evitate. In questo caso
si richiede l’uso di un secondo
serbatoio per il recupero del fluido scaricato”.
Per
concludere riportiamo alcune
considerazioni
riportate nell’intervento a proposito dell’incidente:
-
“il reattore era stato escluso dalla sorveglianza dell’ente preposto in
considerazione dell’art.
73 del D.M. 1974. In sostanza perché destinato
a essere esercito a pressione inferiore a 0,5 bar;
-
in realtà era prevista, in una certa fase della lavorazione, l’immissione di
aria a pressione
superiore alla pressione atmosferica e, quindi, la dichiarazione di
esercizio non a pressione risultava, comunque, non corretta;
-
era possibile e quindi doveva essere preventivato che il vapore potesse non
pervenire saturo, e quindi a temperatura inferiore a 200 °C, ma surriscaldato a
temperatura valutata tra i 300 e 330 °C;
-
nessuno si pose il problema di sapere perché su un reattore destinato a
funzionare a pressione atmosferica fosse installato un
disco di rottura; cosa, invece, ampiamente rilevata e stigmatizzata
dai periti e dal collegio del giudizio di prima istanza;
-
il
circuito degli sfiati era
intercettabile mediante valvola ed era suscettibile di dar luogo a
condensazioni di liquidi e accumulo degli stessi fino a provocare ostruzioni
che, impedendo il libero sfiato, potevano causare sovrappressioni, vanificando
la funzione del circuito stesso e sollecitando il disco di rottura;
-
avrebbe dovuto essere del tutto evidente che,
in un reattore contenente fluido in doppia fase, occorre individuare,
come pressione massima ammissibile, la pressione corrispondente alla tensione
di vapore del liquido alla temperatura massima ammissibile, così come
correttamente riportato in modo esplicito nella direttiva
PED”.
“ SAFAP
2010 - Sicurezza ed affidabilità delle attrezzature a pressione - La gestione
del rischio dalla costruzione all’esercizio - Atti del Convegno” (formato
PDF, 28.36 MB).
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