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"Percepire i rischi e controllarli autonomamente: si può insegnare?"
fonte www.puntosicuro.it / Formazione ed informazione
19/03/2013 - Vorremmo partire da diverse osservazioni concrete che ci fanno
“puntare il dito” su un problema diffuso, di fatto noto, ma spesso non
affrontato.
Tante volte dopo un infortunio si sente qualche osservazione come
questa: “certo se fosse stato un minimo attento non si sarebbe fatto
nulla”, oppure: “il rischio era evidente e per giunta non aveva motivo
di appoggiarsi in quel punto” …
Insomma vediamo
ricondurre molti eventi infortunistici all’errore umano, alla distrazione, a fattori che comunque coinvolgono i comportamenti delle persone,
e molto spesso dell’infortunato stesso. Ovviamente ci sono altre cause,
ma il comportamento viene interpretato come con causa determinante.
Sino a un certo momento si poteva pensare che questo modo di
ragionare fosse spinto dalla volontà di togliere importanza ad altri
aspetti, oggi non possiamo nascondere il fatto che dopo gli
indiscutibili progressi in materia di prevenzione degli infortuni e
delle malattie professionali messi in campo negli ultimi venti anni, molti degli eventi dannosi che ancora accadono sono dipendenti anche da
comportamenti davvero poco sicuri, evidentemente poco sicuri.
I contorni del
problema
Facciamo
un passo indietro: chi scrive è quasi scandalizzato dal recente Accordo Stato –
Regioni sulla formazione dei lavoratori. Nel senso che le aziende, molte aziende,
sono andate ben oltre; va benissimo, l’accordo, per fare ordine nel pregresso,
ma non c’è nulla di veramente nuovo. Eppure, nonostante tutta questa formazione
fatta e ripetuta, i comportamenti pericolosi ci sono ancora. Abbiamo sbagliato?
Verrebbe
da rispondere SI. Si, qualcosa evidentemente ci è sfuggito.
L’impegno
degli ultimi oltre venti anni volto al
miglioramento
delle prestazioni dei lavoratori in materia di tutela della sicurezza e sella
salute è stato per gran parte orientato ad:
-
informare, insegnando quali sono i rischi presenti in azienda,
-
insegnare, formando sulle modalità idonee a prevenire o controllare i rischi.
Come
se tutto ciò fosse in grado di garantire:
-
che tutti i rischi presenti in azienda possano essere presi in esame, inclusi
quelli che si possono presentare in situazioni anomale o di emergenza,
-
che i destinatari della informazione e della formazione siano disponibili a
fare propri acriticamente le informazioni e i concetti trasmessi,
-
che poi resti memoria assoluta e completa nel tempo, di quanto effettivamente
acquisito in sede di informazione e di formazione.
Credo
che le tre proposizioni sopra elencate ci trovino tutti
ampiamente
scettici!
Quindi
la informazione e la formazione raggiungono obiettivi di maggiore conoscenza
sicuramente
incompleti e non duraturi
nel tempo. E può anche accadere che da parte di alcuni lavoratori ci sia un
vero e proprio rigetto, o se
preferite una chiusura rispetto a quanto esposto in queste occasioni.
Insomma,
a fronte di indiscutibili successi degli sforzi di informazione,
formazione e addestramento messi in atto dalle aziende, dobbiamo riscontrare una
loro non piena copertura del tema
sicurezza e salute sul lavoro, dipendente da fattori di varia origine. E
possiamo, al tempo stesso, fare una considerazione che poi è una
controindicazione dell’approccio seguito; se mi viene presentato l’insieme
informazione + formazione come una istruzione esaustiva su quali sono rischi e
relative misure di controllo in un determinato contesto aziendale, io mi fido e
ritengo che non ci siano altri rischi oltre a quelli detti, e che io non debba
adottare comportamenti sicuri in più rispetto a quelli che i sono stati
insegnati.
E
allora, se un lavoratore “ben” informato e formato si trova davanti a
una situazione di rischio nuova per lui
e non prevista dalla azienda, cosa può succedere?
Le
alternative sono alcune:
-
il lavoratore non riconosce il pericolo e/o la fonte di rischio come tali e si
comporta come se non fosse esposto; solo la fortuna lo potrà proteggere da infortuni o
malattie professionali;
-
il lavoratore riconosce il problema ma lo sottovaluta e non prende
contromisure;
-
il lavoratore riconosce il problema, lo valuta correttamente e adotta
contromisure adeguate, ma non comunica nulla ai colleghi per cui il problema si
potrebbe ripetere di fronte ad altri lavoratori meno
skilled;
-
….
Noi,
invece, dopo tanta informazione e formazione ci saremmo aspettati qualcosa di
diverso (chiamiamolo “percorso virtuoso”):
-
Riconoscimento del pericolo e del rischio,
-
Stima e valutazione del rischio
-
Scelta di contromisure di controllo corrette o sospensione della attività,
-
Comunicazione alla struttura per trasformare un trattamento (di una non
conformità) nella risoluzione sistemica della stessa.
Se
le statistiche degli infortuni e dei mancati infortuni ci dicono che è
frequente che il percorso virtuoso venga abbandonato ad un certo punto andando
a causare situazioni concretamente pericolose, è evidente che
tutto il nostro insegnamento ha intaccato
solo una certa categoria di problemi, quella dei problemi ripetitivi.
Cosa
ne concludiamo? Che i lavoratori sono tutti “scemi”? assolutamente no!
Anche soggetti manifestamente molto
intelligenti e capaci di pensiero altamente originale, cadono negli stessi
errori.
Chi
scrive crede che la
questione sia da
ricondursi a due fattori:
-
comprensione del macro problema a livello intellettuale che deve diventare
anche livello istintivo, quella che si dice forma mentis;
-
concentrazione sul tema come parte integrante della propria attività
intellettuale durante il lavoro.
Un
inciso opportuno: la questione degli errori involontari non riguarda solo la
sicurezza, è in agguato in qualunque aspetto della nostra attività lavorativa.
Qui ci concentriamo sul tema sicurezza per il costo umano, sociale e aziendale
che hanno gli infortuni e le malattie professionali! E per il fatto che è
inammissibile che una attività che deve essere positiva per definizione, come
il lavoro, possa portare a tali conseguenze, capaci di interrompere o rovinare
la vita di un essere umano. Il lavoro ha come finalità ultima il bene degli
esseri umani, se il risultato del lavoro è opposto il senso stesso del lavoro
si perde!
Che fare?
Bella
domanda, vero? La risposta sembra semplice:
-
insegnare alle persone a ragionare,
ovvero a percorrere autonomamente il flusso della valutazione dei
rischi;
-
convincere le persone ad utilizzare lo
strumento della valutazione dei rischi come strumento utile alla protezione
completa e continua della propria incolumità fisica.
Un
amico diceva: per cambiare il modo di ragionare di un ampio gruppo di persone
(il personale di una azienda) sono necessari almeno cinque anni. Nel frattempo
puoi ottenere dei risultati parziali, importantissimi ma che non sono del tutto
entrati nella mentalità delle persone. Intendendo, lui, col termine mentalità,
il modo istintivo di percepire la realtà che ci circonda.
È
evidente che per introdurre un cambiamento del genere, che deve penetrare a
fondo in ogni singola persona, l’insegnamento teorico non è lo strumento. Serve
solo per mettere delle piccole basi comuni, ma la costruzione della competenza
e della capacità di cui stiamo parlando è qualcosa di molto più complesso.
A
questo punto riteniamo che al di là dei classici modi di formare gli adulti
(lezioni frontali unite a svariate forme di esercitazione) non resti che
affrontare la tematica sul campo, davanti a casi concreti, per eseguire vere
esercitazioni concrete.
Una
moderata esperienza su questo che comunque rappresenta un argomento la cui
rilevanza è emersa con prepotenza negli ultimi tre – quattro anni, ci
spingerebbe a suggerire un percorso di questo genere:
1)
docenza in aula –
LA VALUTAZIONE DEI RISCHI
-
cosa è
-
a cosa serve
-
come si effettua
-
perché è importante che tutti sappiano valutare i rischi
2)
esercitazione in aula –
ESERCIZI DI VALUTAZIONE DEI RISCHI
-
sviluppo di casi semplici, dalla identificazione dei pericoli alla valutazione dei
rischi,
su esempi fotografici di situazioni reali
-
presentazione, discussione di gruppo, correzione finale
3)
sopralluogo on the JOB –
RICONOSCIMENTO DEI PERICOLI
-
definizione del “campo di gioco”
-
sopralluogo libero da parte dei discenti
4)
esercitazione in aula –
VALUTAZIONE DEI RISCHI
-
valutazione dei rischi (inclusa la scelta di misure di controllo)
-
presentazione, discussione di gruppo, correzione finale
Naturalmente
le fasi 3 e 4 si possono ripetere e per diverse tipologie di rischio, e per
diverse tipologie di reparto, ma anche in generale per consolidare le abilità
acquisite. È consigliabile che tali ripetizioni siano distribuite nel tempo in
modo da consentire un apprendimento progressivo nel tempo.
Conclusioni:
funzionerebbe?
Beh,
l’esperienza dimostra che facendo questo percorso si scopre che alle prime
occasioni sul campo le persone dimostrano di essere assai fuori target. Ma col
tempo le cose migliorano, ci vuole pazienza, tanta. Ma il risultato si può
raggiungere.
Allora,
in mancanza di meglio … proviamo così. L’obiettivo è molto ambizioso e andrebbe
a risolvere una serie di problemi pratici di competenza e capacità delle
persone esposte ai rischi, specie a quelli che derivano da situazioni non
ripetitive.
Sarebbe
davvero interessante aprire un dibattito su questo tema. Certo ci sono molti
più preparati di noi su questi temi, ma crediamo che la concreta esperienza sul
campo sia utile per stimolare l’idea di soluzioni innovative.
Infine
una piccola nota: non importa proprio nulla che i discenti vadano via felici ed
entusiasti da questa attività di formazione e addestramento, è importante che
cambino il loro modo di vedere il lavoro, la sicurezza e la salute.
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