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"Il riconoscimento dei rischi lavorativi per la salute e la sicurezza"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza sul lavoro
09/05/2013 - L’argomento della
percezione del rischio appassiona molti dei lettori di PuntoSicuro; lo conferma il numero e la complessità dei commenti ricevuti a precedenti articoli sul tema scritti dal sottoscritto e da altri autori (fra cui cito con affetto Attilio Pagano).
Naturalmente non tutti abbiamo la stessa visione, ma certo vogliamo
trovare il modo di affrontare con successo lo stesso problema: come
possiamo insegnare a tutti (perché limitarci all’ambito lavorativo) a
riconoscere i pericoli e a scegliere strategie di controllo degli stessi
che diano risultati soddisfacenti?
Premessa
Ingegneri, tecnici della prevenzione, psicologi, responsabili delle
risorse umane, RSPP, MC … tutti vorremmo avere intorno a noi persone,
lavoratori, su cui possiamo fare conto in termini di attenzione agli
aspetti rilevanti di sicurezza e salute sul lavoro.
Chi deve tutelare la sicurezza di un lavoratore, e dei colleghi che lo circondano?
Leggendo l’articolo 20 del D.Lgs. 81/2008 si osserva immediatamente
il richiamo all’impegno di ognuno nella tutela della propria sicurezza e
salute, così come nella tutela di quelle degli altri lavoratori
presenti. È un assunto che richiama con forza la responsabilità e/o il
coinvolgimento dell’individuo nella tutela di sicurezza e salute. È la
conferma che il datore di lavoro non può essere garante completo e
perfetto della sicurezza dei propri lavoratori.
Molti di noi hanno oggi una attitudine forte alla fuga dalle
responsabilità, per cui gli altri devono dare garanzie e tutele di cui
essere solo destinatari senza nessuna partecipazione; tutto ciò cambia
quando le regole imposte da altri ci disturbano: allora si invoca spesso
e a sproposito il fatto che siamo in democrazia. Se tutti facessimo
meno i bambini viziati e ci assumessimo le nostre responsabilità …
Sia chiaro, questo vale per i lavoratori ma anche per i preposti, per i dirigenti e per lo stesso datore di lavoro: quanti sistemi di deleghe esistono,
orientati non tanto a fare funzionare bene una azienda sotto il profilo
della salute e della sicurezza, quanto piuttosto a proteggere i vertici
in caso di infortunio o malattia professionale?
Quindi è difficile coinvolgere davvero le persone considerando la
loro intelligenza, la loro capacità di percezione del contesto, la loro
competenza come un vero e proprio insieme di misure di tutela capaci di
adattarsi alle mutevoli condizioni circostanti. Però questa è una strada
da percorrere, non l’unica, per migliorare sicurezza e salute sul
lavoro; ed è sicuramente una di quelle che dovrebbero dare maggiori
soddisfazioni in termini costi/benefici.
L’obiettivo che ci poniamo: sviluppare nei lavoratori una
coscienza, una consapevolezza e una conoscenza tale che gli consenta di
evitare o controllare le situazioni di rischio (per la sicurezza o per
la salute), e in particolare le situazioni che possono presentare danni a
gravità molto elevata, ovvero, usando i termini del codice penale,
gravissimi o mortali. Sono quegli eventi che hanno maggiore impatto
negativo sia sull’individuo che sulla società.
Il riconoscimento del
rischio e le misure di controllo
Da
quanto sopra, l’obiettivo concreto è quello di instillare nelle persone un modo
di ragionare elementare che parte dalla realtà e arriva al controllo del
rischio:
1.
Identificazione della fonte di rischio e del pericolo
2.
Stima della possibile gravità del danno e confronto con i livelli di
accettabilità che ci siamo dati (le condizioni di rischio gravissimo o mortale
certamente sono inaccettabili senza misure di controllo adeguata, che possono
essere già presenti o da implementare)
3.
Decisione: devo aumentare le misure di controllo? (SI/NO)
4.
In caso di risposta affermativa: ideazione / studio delle possibili misure di
controllo
5.
Sulla base delle misure di controllo ipotizzate: si rivaluta e se ne saremo soddisfatti
potremo procedere, naturalmente a patto di applicare le misure di controllo che
abbiamo adottato.
In
questo flusso, paradossalmente, sono i punti meno creativi quelli critici; ci
riferiamo alle attività che abbiamo etichettato con i numeri 1 e 2.
Esiste
una logica elementare dietro questa affermazione: se non vedo un pericolo,
ovvero non associo un pericolo ad una determinata fonte di rischio, o se
sottovaluto le conseguenze che potrei subire a seguito della presenza di qual
pericolo, tendo a sentirmi tranquillo, protetto, e quindi non sono indotto a
pensare ad una reazione. Ovvio, credo. Come è ovvio che se vedo un pericolo, mi
rendo conto che le conseguenze di un eventuale evento dannoso potrebbero essere
gravissime o addirittura mortali per la mia persona, allora forse sono indotto
ad adottare qualche ulteriore misura per tutelare la mia sicurezza e la mia
salute.
I discostamenti
dalla prudenza (sono cosciente del pericolo ma non adotto contromisure)
In
verità quanto sopra descritto non accade sempre: accade anche che persone che
hanno riconosciuto il pericolo e considerato che le conseguenze del danno
potrebbero essere tanto grandi da cambiare il corso della loro vita, e che
nonostante questo non adottano ulteriori precauzioni.
Questo
potremmo vederlo come un fallimento inesplicabile di qualunque azione di
sensibilizzazione delle persone: ma come, pur avendo visto e capito non hai
fatto nulla? In verità è qualcosa di molto normale e fortemente radicato nel
modo di ragionare delle persone quando prendono decisioni (non fare nulla per
proteggersi da un rischio noto è comunque una decisione).
Entrano
in gioco
diversi aspetti (elenco non
esaustivo):
-
Una implicita
stima della probabilità
che si verifichi il danno alla persona esposta (stima che come vedete sopra non
è stata indicata come elemento necessario per il flusso logico). Sulla base di
tale stima la persona ritiene che la probabilità di subire un danno sia tanto
bassa da consentirle di rischiare, assumendo il concetto improprio che “è una
cosa così
improbabile che sono
sicuro che non mi succeda niente”; dove
nello stesso ragionamento si mescolano due concetti (probabilità e sicurezza)
che non vanno molto d’accordo (non sono affatto sinonimi). Già sarebbe meglio
dire che “la circostanza che si manifesti un danno è talmente improbabile
(remota) che la probabilità che si verifichi può a buon diritto essere
considerata praticamente nulla”. Qui si dà già una connotazione più forte al
termine di improbabilità, e si descrive una situazione che in casi eccezionali
è possibile riscontrare.
Ma
il “problema” non si ferma qui: quanto siamo davvero capaci di stimare la
probabilità che si verifichi un determinato danno? In condizioni normali di
lavoro, senza una attività analitica e di astrazione logica, non è facile
raggiungere risultati attendibili. Quindi la probabilità che noi andiamo ad
ipotizzare risulta essere, in molti casi, un segnale poco attendibile, e quindi
è meglio non farne uso esplicitamente o implicitamente, se non si vuole
coinvolgere uno specialista di valutazione dei
rischi.
E lasciatemi dire: i lavoratori non possono diventare valutatori dei rischi
completi se non si impegnano in questo tipo di attività in modo continuo, cosa
evidentemente non compatibile con la loro collocazione professionale in
azienda. Quindi coinvolgere si, ma riconoscendo i limiti del contributo
concreto che l’organizzazione aziendale può ricevere da queste valutazioni dei
rischi svolte prima di tutto dai lavoratori;
-
L’altro aspetto da considerare è il
costo,
ovvero la fatica o il disturbo che possono essere generati alla persona esposta
dalla adozione delle contromisure. Fatica fisica, disagio psicologico, fatica
di pensare a una cosa in più da fare … tutti fattori simili che ostacolano la
reazione “prudente”, ovvero quella di adottare tutte le contromisure possibili.
Facciamo
qualche esempio elementare: per adottare la contromisura devo impiegare molto
più tempo di quello necessario a svolgere l’operazione pericolosa che mi
accingo a fare. Nessuno intorno a me attua la contromisura che ho pensato, non
vorrei essere preso in giro come “fifone”. Per adottare una contromisura
adeguata devo andare a prendere una attrezzatura pesante e la devo trasportare
a mano.
Insomma,
il costo percepito per l’adozione della contromisura potrebbe spingermi a farne
a meno per una semplice questione di comodità e/o pigrizia.
Gli atti insicuri e
la strategia dell’azienda
Molti
pensano che compiere atti insicuri sia, da una parte la affermazione della
propria capacità e del proprio “coraggio”, dall’altra un comportamento
favorevole alla azienda per cui lavorano. Sono due assunzioni errate, da
smantellare. Prima di tutto fino a che le cose vanno bene potrei essere oggetto
di una certa ammirazione se tengo comportamenti
insicuri
dimostrando di essere tanto coraggioso e bravo da non farmi male; salvo che se
dovessi farmi male sarei trattato come un cretino, un incosciente … ne vale la
pena?
Ma
quello che davvero preoccupa è il sentimento profondo che certi atteggiamenti
insicuri siano ben visti dalla azienda. Io sarei quindi una persona che non
disturba, che non crea mai problemi, che si impegna a svolgere velocemente il
proprio lavoro … ma ancora una volta se mi facessi male l’azienda non
plaudirebbe perché sarebbe la prima a passare problemi e grane, o peggio. Una
frase sentita più volte: “come, io cercavo di recuperare il ritardo sul piano
di lavoro, purtroppo mi sono infortunato e l’azienda cosa fa? Mi manda una
lettera di richiamo!”. Che qui ci sia un fraintendimento è più che evidente.
Questo
ragionamento per dire ancora una volta: non nascondiamoci dietro false scuse,
se c’è un pericolo che comporta un possibile danno gravissimo o mortale,
qualcosa dobbiamo comunque pensare al fine di controllare il rischio, senza
stare a fare troppe finezze sulla probabilità che poi potrebbero farci prendere
decisioni errate e non in linea con quanto l’azienda si aspetta da noi.
Il riconoscimento
dei pericoli per la sicurezza
Come
si è visto in precedenza, il primo passo del flusso che abbiamo proposto è il
riconoscimento delle fonti di rischio e dei pericoli corrispondenti. Si tratta
di un passaggio obbligato, assolutamente necessario per raggiungere l’obiettivo
di mettere sotto controllo tutti i rischi. Ma non è affatto un passaggio
semplice e scontato.
Contro
di esso congiurano le nostre abitudini e i nostri limiti:
-
È ben noto, e evidente anche nella esperienza quotidiana, che l’
esperienza è un’arma potente che ci
consente di evitare errori nelle situazioni ripetitive ma che può portarci a
non rilevare una situazione anomala in cui potrebbero annidarsi pericoli o
rischi diversi da quelli concreti. Quando una situazione e un contesto sono
simili ad altre ben note tendiamo ad agire come se le situazioni e i contesti
fossero del tutto uguali sottovalutando e ignorando gli elementi che le
differenziano. E se fra gli elementi di distinzione ci sono anche pericoli e
rischi, noi finiamo col non rilevarli (non vediamo i pericoli). È quindi
necessaria una qualche forma di analisi cosciente che ci consenta di evitare
questi fraintendimenti molto pericolosi.
Un
piccolo esempio: un lavoratore è abituato a rimuovere i trucioli da un tornio
parallelo manuale tirandoli con le mani; la possibilità di tagliarsi coi
trucioli è ben nota a tutti e per questo motivo l’operatore indossa guanti anti taglio col massimo
livello di protezione al taglio (4). Non capita mai nessun problema fino a che
un giorno la matassa di truciolo resta avvolta sul mandrino e, in qualche modo,
incastrata; per l’operatore la situazione è quella di sempre: prenderà la
piccola matassa con la mano, la estrarrà senza sforzo dalla macchina e la
depositerà su un cassone per i trucioli. Ma la matassa resta ferma, l’operatore
reagisce istintivamente senza pensare che la situazione è cambiata, tira quindi
con maggior forza i trucioli sino a che senta un forte dolore alla mano. La
parte tagliente dei trucioli, per effetto della maggiore forza reciprocamente
esercitata, ha tagliato il guanto e anche il dito dell’operatore.
Quindi
l’abitudine, unita alla convinzione che situazioni simili possano essere
trattate come situazioni uguali (allora a che serve perdere tempo a
ragionare?), ha portato a un errore che ha causato un infortunio che, dopo le
cure al primo soccorso, risulterà grave, secondo le definizioni del codice
penale;
-
Ma non sempre gli errori derivano dall’abitudine e dalla sottovalutazione
(scarsa percezione) delle situazioni diverse dal solito (dette anche situazioni
anomale). Esiste un altro macro motivo per cui le persone non riconoscono le
fonti di rischio e i pericoli come tali. Si tratta della
mancanza di conoscenza, che può impedirci di riconoscere qualcosa
che pure è molto evidente (per chi ha gli elementi di conoscenza che invece a
noi mancano).
Pensiamo
ad un carrellista che opera per movimentare materiali di vario genere in
un capannone industriale; nessuno gli ha mai detto che uno dei tubi che corrono
lungo il muro contiene vapore, lui sa però che i tubi adiacenti contengono
acqua e aria compressa (li riconosce dal colore). Non ha quindi le competenze per
riconoscere una fonte di rischio e si comporta come se tale fonte non
esistesse. Quindi opera senza nessuna particolare cautela fino a quando,
sbagliando manovra, urta con le forche del carrello il tubo del vapore
spaccandolo. A questo punto si verifica una forte e improvvisa emissione di
vapore d’acqua ad alta temperatura. Un operaio che si trovava in prossimità
dell’impianto, impegnato in un’altra operazione lavorativa, viene investito e
subisce un grave danno.
Come
poteva il nostro carrellista conoscere il problema se gli mancano gli elementi
di base necessari per riconoscere la situazione in cui si trova? Non poteva,
ovviamente, ma vedendo qualcosa di non noto (quindi anomalo rispetto ai suoi
punti di riferimento conoscitivi), avrebbe potuto chiedere.
Questo
per dire che: anche i pericoli per la sicurezza, che dovrebbero essere i più
facili da individuare, talvolta non vengono riconosciuti.
Il riconoscimento
dei pericoli per la salute (il ruolo del medico competente)
Quando
dalla evidenza di un possibile infortunio che si manifesterebbe chiudendo
“istantaneamente” la catena causa – effetto, si passa a ragionare di una
possibile
malattia professionale che
si potrebbe manifestare anni dopo il momento presente, le cose si complicano
ancora.
Inoltre
i fenomeni di cui andiamo a parlare sono subdoli per loro natura: in molti casi
non si percepiscono (vista, olfatto …), non se ne subiscono conseguenze
immediate (quindi non si riconoscono dal dolore fisico o da altre sensazioni di
disagio), e le conseguenza si manifestano solo in un momento molto lontano nel
tempo.
Un
esempio: poniamo di essere in una
acciaieria dove, normalmente, l’ambiente è relativamente polveroso. Mi è
chiaro, e chiaro a tutti che la polvere presente non è la cosa più sana del
mondo da respirare; una impressione diretta ci deriva dal fatto che col passare
del tempo ci si seccano bocca e gola e desideriamo rinfrescarci con una bella
sorsata di acqua (a metà del secolo scorso si usava ancora il vino, che disseta
di più … così la cirrosi epatica era di fatto una malattia professionale).
Allora, la sensazione di possibile pericolo c’è, ma se nessuno ci informa che
in quella polvere è presente una considerevole quantità di cromo esavalente ci accontentiamo
di una semplice mascherina, e se l’esposizione è breve non mettiamo neanche
quella. Tranquillizziamoci, i casi di presenza di cromo esavalente sono
estremamente rari negli ambienti di cui parliamo, però chi scrive ne ha
personalmente osservato la presenza. Ora vorrei porre una domanda: quanti che
leggono questo articolo, o se volete quanti che lavorano in una fonderia sanno
cosa è il cromo esavalente e quali conseguenze può comportare? Se non lo
sapete, su wikipedia trovate: “Data la presenza di cromo esavalente, la miscela
… è molto tossica, cancerogena e pericolosa per l'ambiente: occorre quindi utilizzarla
indossando indumenti
protettivi
che limitino il contatto diretto con questa sostanza ed evitando di inalarla”.
Cosa
ne segue: che il nostro comportamento cambierebbe radicalmente una volta che
sapessimo della presenza nella polvere di cromo esavalente. Comportamento
corretto o eccesso di zelo? Non lo possiamo dire a priori.
Il
senso di questo paragrafo è il
seguente: se sui rischi a carattere infortunistici possiamo ritenere che noi
“tecnici” che lavoriamo nelle azienda abbiamo una buona competenza tecnica di
base che ci aiuta a riconoscerli, e quindi alla fine è solo questione di
mentalità e di volontà, discorso ben diverso vale per le malattie
professionali.
Qui la competenza è essenziale.
In
altri scritti abbiamo affermato che la soluzione per formare, coinvolgere,
rendere efficaci i singoli nella valutazione delle situazione dei rischi a cui
si trovano esposti, e nel problem solving, è quella di fare esercizio sul
campo, di fronte a situazioni reali.
Per
gli aspetti legali alle malattie professionali, specie quelle che si
manifestano per effetto dell’accumulo di una serie di piccoli danni
singolarmente insignificanti, il primo problema è la comprensione dei possibili
fenomeni dannosi. Qui i
medici
competenti potrebbero e dovrebbero svolgere un ruolo molto importante.
Alcune sere orsono, a cena, un medico di grande esperienza mi ha esposto una
considerazione sui danni da rumore che ben
rappresenta ciò che voglio dire; cerco di ripetere il suo ragionamento: “…
chi è esposto al rumore pensa sempre al
risultato finale della sordità; invece sarebbe importante considerare danni
apparentemente meno gravi ma che possono impattare fortemente sulla vita di una
persona. Pensa a noi adesso, siamo a
cena con altri 15 commensali, parliamo fra noi e con i nostri vicini; chi è
esposto al rumore si accorge spesso di avere problemi quando andando a cena con
gli amici ha difficoltà a distinguere le parole e sente tutto sommerso da un
rimbombo uniforme e fastidioso. Le prime volte andrà e parlerà meno del solito,
poi col tempo rinuncerà ad andare a questi eventi. Così l’esposizione al rumore
ha cambiato la socialità di una persona … con chissà quali altre conseguenze
sulla sua vita”.
Mi
pare un bell’esempio di come l’esperienza pratica di un medico possa essere
messa al servizio dei lavoratori per renderli maggiormente coscienti dei rischi
che corrono. Quindi tre parole:
-
Esempi tratti dalla esperienza (ovviamente su temi aderenti al contesto ove
opera il lavoratore)
-
Modalità di accumulo del danno (quali sono i fattori pericolosi)
-
Fenomenologia (e cenni di fisiologia) del danno (per esempio il rumore è un
danno irreversibile).
Con
questi potremmo sperare di avere dato al lavoratore quella competenza minima
che gli consenta di riconoscere i potenziali problemi per la propria salute.
Poi il discorso ritorna a quanto detto per i rischi infortunistici.
Conclusioni
Questo
articolo credo che concluda, almeno per qualche mese, la mia riflessione sul
coinvolgimento dei lavoratori come soggetti attivi nella valutazione dei rischi
e nella definizione delle misure di tutela, specie quando si trovano di fronte
a situazioni anomale o comunque inaspettate.
E
concludo affermando che di docenti capaci di seguire un “progetto” del genere
non ce ne sono molti ma ci sono. È fondamentale però, per il docente che va sul
campo e osserva insieme ai lavoratori affidati alle sue cure un cartello che
indica “RUMORE>85dB(A)”, che possa confidare che chi lo accompagna conosca
un minimo la fenomenologia del danno da rumore e le sue conseguenze.
Quindi
se l’impegno in campo, in un reparto produttivo, sarebbe meglio fosse fatto
accompagnando i lavoratori oggetti dell’intervento formativo con un
tecnico che abbia la loro stessa o una
maggiore capacità di identificare i pericoli, nell’intero processo formativo
non possono mancare il
medico che
deve spiegare le caratteristiche delle diverse patologie professionali, e lo
psicologo che deve rendere manifesti i
processi cognitivi e le euristiche utilizzate nel processo di riconoscimento
del pericolo e valutazione del rischio.
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