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"L'obbligo di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili"
fonte www.puntosicuro.it / Sentenze
17/02/2015 - Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass.Pen.,Sez. 4, 9
ottobre 2014, n. 42235) bene illustra il significato dell'obbligo
generale configurato nell'art. 2087 c.c. e di quello speciale definito
nell'art. 18, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 81/08.
Art. 2087.
Tutela delle condizioni di lavoro.
L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa
le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la
tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro
Articolo 18 - Obblighi del datore di lavoro e del dirigente
1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui
all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse
attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
c) nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle
capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e
alla sicurezza;
Entrambe le previsioni di legge
mostrano, con carattere di evidenza, come il datore di lavoro debba essere
“sostenuto”, nell'adempimento dell'obbligo, da
figure specialistiche individuate dalla norma. In primo luogo,
relativamente agli aspetti sanitari e di igiene del lavoro, il
medico competente.
In quell'ambito, infatti, le
“misure”, le “capacità” e le “condizioni” posso essergli rese soltanto dall'attività
propria e consulenziale del medico competente; prevalentemente (ma non solo)
tramite l'esplicazione della sorveglianza
sanitaria e l'espressione dei giudizi
di idoneità.
Nel caso in esame, un lavoratore
era stato vittima di un infortunio sul lavoro cui erano conseguiti postumi
invalidanti che ne avevano giustificata l'adibizione come addetto alla
portineria ed alla sorveglianza.
Il datore di lavoro lo aveva
invece poi adibito a mansioni di imballo, gravanti sotto il duplice aspetto
della movimentazione
manuale dei carichi e della disergonomicità (stazione eretta prolungata).
In conseguenza di ciò il
lavoratore pativa un ulteriore evento traumatico, consistente in una violenta
fitta alla schiena che ne provocava l'accasciamento e il conseguente ricovero
al pronto soccorso.
Il giudice di primo grado
assolveva il datore di lavoro dal reato di lesioni personali colpose (art. 590
c.p.) commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro (cpv.
terzo).
A seguito di impugnazione da
parte del pubblico ministero la sentenza veniva riformata in appello, col
riconoscimento della penale responsabilità del datore di lavoro e insieme con
pronunzia di condanna al risarcimento nei confronti della parte civile.
L'imputato ricorreva per
cassazione deducendo
quattro motivi,
tra i quali – qui - rilevano particolarmente il secondo ed il terzo:
- Con il
secondo motivo assume
che l'applicazione della vittima ad altra lavorazione ha avuto luogo
in presenza di tutti i presupposti medici,
come da documentazione prodotta.
- Con il
terzo motivo si
deduce che erroneamente e senza base è stata ritenuta la connessione causale
tra le condotte imputate e la malattia. Non vi è prova di sforzi eccessivi per
sollevare i tubi, anche perché era stato installato un
carroponte.
Il giudice di legittimità, nel
ritenere
infondato il ricorso,
evidenzia come la sentenza impugnata abbia minutamente ripercorso la vicenda
oggetto del processo:
- il precedente grave infortunio del
lavoratore; i rilevanti postumi;
- la conseguente assegnazione a prestazione di
portineria e sorveglianza compatibile con lo stato di parziale invalidità; la
successiva assegnazione, nel 2007, a mansioni di imballo;
- l'opposizione del lavoratore che segnalava i
postumi invalidanti nella misura del 30%;
- la determinazione dell'azienda
nell'applicazione alla indicata lavorazione
sulla base di valutazione del medico aziendale, che escludeva che il
lavoratore dovesse sollevare carichi rischiosi in considerazione della
riorganizzazione del reparto di imballo;
- l'accertamento della Asl che determinava la
inidoneità permanente alle attività che comportino la stazione eretta e la
movimentazione di carichi di peso superiore ai 10 kg; la ritenuta congruità
della prestazione richiesta, da parte dell'azienda, in considerazione
dell'esistenza di impianto semiautomatico di imballo; la valutazione del dottor
G., dirigente della Asl locale, il quale riteneva il lavoratore non idoneo alla
prestazione in atto, documentata anche con fotografie delle posizioni assunte
dai lavoratori; la rilevanza ponderale dei tubi da imballare e delle altre
operazioni che vengono minutamente descritte, tutte ritenute impegnative; la
conferma delle valutazioni da parte del G. nel corso della deposizione
dibattimentale; l'apprezzamento in ordine alla attendibilità ed indipendenza
delle valutazioni espresse dal tecnico; la confutazione della tesi difensiva
secondo cui l'imballo era in larga misura automatica, considerando la necessità
di operazioni di spinta, trazione e torsione nonché di sollevamento, sempre in
posizione eretta.
Ciò che sembra apparire
immediatamente, è la responsabilità del medico
competente, pur tuttavia
non chiamato a rispondere in sede di
imputazione penale e civile.
Se da un lato è infatti
configurabile una sua responsabilità per violazione dell'art. 25 -segnatamente,
lett. a), b) ed m)- e 39, comma 1,
D.Lgs. 81/08, dall'altro pare configurarsi il caso in cui il datore di lavoro
avrebbe potuto agire in rivalsa nei confronti del medico competente. E' infatti
“sulla base di valutazione del medico aziendale” che il datore di lavoro
si è determinato
“nell'applicazione [del lavoratore]
alla indicata
lavorazione”, poi rivelatasi dannosa.
Non si può escludere, peraltro,
che anche sulla base di quella valutazione il datore di lavoro
“nonostante le reiterate valutazioni tecniche
della Asl contrarie alla utilizzazione del lavoratore nella mansione indicata,
.. non ha receduto.”.
Si è voluto rendere evidenti
queste considerazioni (opinabili, come ogni considerazione) per mostrare quanto
talvolta risultino “impreparati” i lavoratori vittime di infortunio o MP, e
insieme anche i datori di lavoro e gli stessi servizi di prevenzione delle ASL
(si richiama, a quest'ultimo proposito, come le violazioni all'art. 25 -almeno
con riguardo alle lett. a) e b)- siano sanzionate con la pena alternativa).
La Suprema Corte stabilisce che
“La
conclusione dell'argomentazione [del giudice dell'appello]
è che
indebitamente il lavoratore è stato assegnato ad una prestazione incompatibile
con la sua condizione e che vi è chiaro nesso causale tra l'attività svolta e
l'evento lesivo, considerata la contestualità con lo sforzo sopra descritto. In
tale situazione si ravvisa che si configurino tutti i profili dell'illecito
contestato.
Tale apprezzamento è basato su
plurime, significative acquisizioni probatorie ed è immune da vizi logici o
giuridici. Esso, pertanto, non può essere sindacato nella presente sede di
legittimità. Rileva che gli organi della Asl avevano motivatamente accertata
l'inidoneità allo svolgimento di mansioni del genere di quella in esame. ...”.
Buon lavoro
Pietro Ferrari
Commissione salute e sicurezza
sul lavoro - Filcams-Brescia
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