News
"Sottoprodotto: le condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006"
fonte www.puntosicuro.it / RIFIUTI
07/04/2016 -
1.
Premessa
Esistono temi, nel pur mutevole mondo del
diritto dell’ambiente, che risultano sempre di attualità. Uno di questi è
certamente il controverso concetto di “sottoprodotto”. Un concetto che fa
discutere, ma che riveste indubbiamente grande importanza, sul piano pratico, dal
momento consente di sottrarre la gestione delle sostanze che vi rientrino dal
regime dei rifiuti, con evidenti vantaggi in termini di riduzione dei connessi
costi e oneri amministrativi.
A livello normativo, questo concetto ha
trovato una propria “stabilità” grazie alla direttiva 2008/98/CE, che lo ha disciplinato
nell’art. 5, ed al suo successivo recepimento nell’ordinamento italiano ad
opera del d. lgs. 205/2010, che lo ha trasfuso nell’art. 184-bis, d. lgs.
152/2006 (noto come “Codice dell’ambiente”).
Da oltre 5 anni, pertanto, esiste nella
legislazione ambientale italiana una disposizione avente ad oggetto la nozione
e le condizioni del “sottoprodotto”, una disposizione che, peraltro, non ha sinora
subito alcuna modifica [ [i]]
e, ciò che più conta, riproduce
fedelmente il citato art. 5 della direttiva-quadro sui rifiuti.
Questo non ha evitato, tuttavia, che, a
causa soprattutto della indeterminatezza di alcune delle condizioni che devono
essere rispettate per poter qualificare (e gestire) una determinata sostanza
come sottoprodotto, sorgessero alcuni contrasti interpretativi, riscontrabili
anche nella giurisprudenza.
Non è possibile soffermarsi, in questa sede,
su tutte le possibili problematiche connesse all’individuazione ed alla
corretta gestione dei sottoprodotti, ma può essere utile prendere spunto da qualche
recente sentenza della Corte di Cassazione penale per tentare di rispondere ad
alcune delle domande che, nella pratica, gli operatori si pongono più di
frequente.
E, a questo proposito, va sottolineato come
il tema riguardi non tanto le imprese del settore dei rifiuti, quanto piuttosto
le
imprese produttive,
inevitabilmente meno abituate a confrontarsi con una normativa complessa e
insidiosa quale è quella in materia di gestione dei rifiuti, nel cui ambito si
colloca - appunto - anche la disciplina dei sottoprodotti.
Sempre in via preliminare, va ricordato che era in fase di elaborazione
da parte del Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare un regolamento che, ai sensi del comma 2 dell’art.
184-bis, d. lgs. 152/2006 , avrebbe dovuto indicare dei criteri finalizzati ad
agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei
residui di produzione come “sottoprodotti” e non come rifiuti. Di questo
regolamento, all’incirca un anno fa, era stato diffuso alle associazioni di
categoria un primo testo (la cui formulazione, peraltro, destava alcune
perplessità), del quale tuttavia s’è
persa ogni traccia.
2.
Nozione e condizioni sancite dal d. lgs. 152/2006 per il “sottoprodotto”
Può non essere superfluo precisare che
il “sottoprodotto” è un “non rifiuto”.
E lo è, si potrebbe dire,
fin
dall’origine, nel senso che il sottoprodotto non diventa mai, neppure temporaneamente,
un rifiuto (anzi, una volta scomparsa dal nostro ordinamento - sempre ad opera
del d. lgs. 205/2010 - la categoria, tutta italiana, delle “materie prime
secondarie fin dall’origine” di cui alla Circolare del Ministero dell’ambiente
28 giugno 1999, prot. n. 3402/V/MIN, la qualifica di sottoprodotto rappresenta
l’unica alternativa, per un residuo di un ciclo produttivo, rispetto alla sua
qualifica come rifiuto).
La possibilità di beneficiare di questa
speciale qualificazione è, però, subordinata al rigoroso rispetto di una serie
di
condizioni fissate direttamente dalla
legge.
La normativa, sul punto, è sufficientemente
chiara.
Secondo l’
art. 183,
comma 1,
lett. qq),
d. lgs. 152/2006, si intende per “sottoprodotto” «
qualsiasi
sostanza od oggetto
che soddisfa le
condizioni di cui all’articolo 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri
stabiliti in base all’articolo 184-bis, comma 2».
E l’
art.
184-bis stabilisce, a propria volta, che «
è un sottoprodotto e
non un rifiuto ai sensi dell’articolo
183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa
tutte le seguenti
condizioni (…)».
Non si tratta, dunque, di condizioni
alternative fra loro, ma di condizioni
cumulative,
nel senso che basta il mancato rispetto di una soltanto di esse per far sì che
una sostanza non possa essere qualificata come “sottoprodotto” (ma,
appunto, “rifiuto”).
I problemi interpretativi sorgono però non
appena ci si addentra nell’esame delle singole condizioni elencate dal comma 1
dell’art. 184-bis, d. lgs. 152/2006.
Vediamole brevemente.
Prima
condizione: «
a) la
sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui
costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di
tale sostanza od oggetto».
Questa condizione mira a distinguere il
sottoprodotto dal “prodotto” vero e proprio, ossia dal “risultato voluto” -
appunto, lo «
scopo primario» - del ciclo produttivo. Deve trattarsi, in
altre parole, di una conseguenza inevitabile (essenzialmente, lo
scarto
o il
residuo), ma non “ricercata”, di un determinato processo
produttivo.
L’economia del presente articolo non
consente di soffermarsi ulteriormente sull’argomento, e, in particolare, di
intervenire nel (tuttora non sopito) dibattito sulla possibilità di far
rientrare in questa categoria, oltre ai sottoprodotti originati da processi di
produzione “in senso stretto” (cioè, di produzione di
beni), anche
quelli derivanti da processi di produzione
di servizi, dibattito
alimentato anche dalla diversa formulazione della nozione di “sottoprodotto”
adottata, rispettivamente, dal d. lgs. 152/2006, dal d. lgs. 4/2008 e, infine,
dal già citato d. lgs. 205/2010, e su cui si registrano posizioni diversificate
anche in seno alla giurisprudenza (paradigmatico è, in proposito, il caso del
fresato
d’asfalto).
Seconda
condizione: «
b) è certo
che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un
successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o
di terzi».
Questa seconda condizione tradisce l’evidente
preoccupazione del legislatore che determinate sostanze, laddove non vengano (giuridicamente)
qualificate come “rifiuti”, possano essere gestite al di fuori di qualsiasi
forma di controllo e possano, di fatto, essere abbandonate, con evidenti ricadute
di tipo ambientale.
Essa impone pertanto al “produttore” del
sottoprodotto di assicurare, attraverso elementi oggettivi, che questa sostanza
venga utilizzata. Da notare che, diversamente dalla più rigida posizione
assunta originariamente dalla Corte di Giustizia CE, la disposizione in esame
consente espressamente di utilizzare (o
ri-utilizzare) un sottoprodotto
come “materia prima” non soltanto nell’ambito del medesimo ciclo produttivo da
cui esso proviene (ad esempio, per recuperare residui di sostanze ancora utili
al ciclo produttivo e risparmiare così in termini di approvvigionamento di
materie prime), ma anche presso un diverso processo di produzione o di
utilizzazione gestito da soggetti terzi, il quale può dunque avere
caratteristiche e finalità del tutto differenti rispetto a quello di origine.
Può essere utile ricordare che la prima
definizione di sottoprodotto contenuta nella originaria versione dell’art. 183,
d. lgs. 152/2006 stabiliva che, «
al fine di garantire un impiego certo del
sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard
merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve
essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in
base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o
detentore, controfirmata dal titolare dell'impianto dove avviene l’effettivo
utilizzo». Benché questi requisiti siano oggi scomparsi dalla definizione
di legge (e, è bene precisarlo, non siano previsti nemmeno dalla direttiva del
2008, che costituisce una normativa sopravvenuta al “primo” d. lgs. 152/2006 e
comunque destinata a prevalere su quella interna), si tratta, e ben vedere, di
suggerimenti pratici ai quali gli operatori possono utilmente far riferimento
anche oggi.
Terza
condizione: «
c) la
sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale».
Questa terza condizione comporta che il
sottoprodotto, per essere tale, debba poter essere re-immesso nel medesimo o in
un diverso ciclo produttivo:
·
o “tal
quale”, cioè
direttamente, senza essere sottoposto ad alcun trattamento;
· oppure, laddove l’utilizzo “diretto” non sia
tecnicamente possibile, a seguito di un trattamento rientrante a pieno titolo
nella “normale pratica industriale”.
Il concetto di “normale pratica industriale” è certamente uno degli
aspetti più controversi della disciplina del sottoprodotto, su cui
torneremo nella seconda parte del presente articolo perché sul
tema si è pronunciata più volte la Suprema Corte. Ci limitiamo qui a
segnalare che
un ausilio per poter considerare un determinato trattamento come
“normale
pratica industriale” può indubbiamente essere fornito da documenti
tecnici
ufficiali, quali ad esempio le BAT (
Best Available Techniques) di
settore o le norme UNI, e che, a rigore, non dovrebbero rientrare nella “normale
pratica industriale” le trasformazioni preliminari di tipo “recuperatorio”,
vale a dire quelle finalizzate a mutare l’identità, le caratteristiche
merceologiche e le qualità ambientali di una determinata sostanza (con tutte le
difficoltà che, sul piano pratico, evidentemente sussistono nella concreta
individuazione di una “linea di demarcazione” tra le une e le altre forme
trattamento).
Da segnalare che, a differenza delle precedente definizione contenuta nel
d. lgs. 152/2006, non è più richiesto che il (re)impiego del sottoprodotto sia
integrale.
Quarta condizione: «
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia
la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti
pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente
e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana».
Quest’ultima condizione - foriera anch’essa di notevoli dubbi
interpretativi, stante la sua formulazione assai scarna (quando non addirittura
“sibillina”) - impone, secondo la lettura che appare più ragionevole, la
dimostrazione del fatto che l’utilizzo del sottoprodotto da parte del
destinatario in alternativa ad una materia prima (per così dire, “vergine”): da
un lato, non determini una violazione delle prescrizioni autorizzatorie o dei
valori-limite (ad esempio, alle emissioni, o allo scarico); dall’altro, non
comporti un
peggioramento, sotto il profilo ambientale e sanitario, del
ciclo produttivo del destinatario stesso. Si ritiene peraltro che tale
valutazione (stante anche il richiamo della legge agli “impatti
complessivi”)
possa e debba tener conto di tutti i benefici ambientali e sanitari, anche
indiretti(si pensi, ad esempio, alla riduzione del traffico veicolare, o al
risparmio energetico o, ancora, alla diminuzione del consumo di risorse
naturali), conseguenti all’impiego del sottoprodotto in sostituzione di una
materia prima.
Proprio questa quarta condizione offre lo
spunto per ricordare un aspetto che, sulla base della nostra esperienza, appare
spesso trascurato dagli operatori, vale a dire che non è ammessa, in termini
assoluti, l’esistenza di materiali o sostanze da intendesi
sempre
esclusi dal regime dei rifiuti (o, il che è lo stesso,
sempre
riconducibili al concetto di sottoprodotto) [ [ii]]; si
tratta, infatti, di una
valutazione da
compiersi
caso per caso, poiché
il
concetto di sottoprodotto ha, per così dire, natura “relazionale”, e
dipende in larga misura, oltre che dalle intrinseche caratteristiche
qualitative e merceologiche di una determinata sostanza, dalle specifiche
modalità di gestione della stessa, dalle peculiarità del ciclo produttivo da
cui proviene e dalle caratteristiche del ciclo di (ri)utilizzo.
Nella seconda parte del presente
articolo esamineremo alcune pronunce della Corte di Cassazione che hanno
affrontato il tema dei “sottoprodotti” e, in particolare, il controverso
concetto di “normale pratica industriale”.
Mara
Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
[
[ii]]
Emblematico è, questo proposito, il caso delle
ceneri di pirite, che erano state espressamente qualificate come
“sottoprodotti” e quindi escluse dal regime relativo ai rifiuti dall’art. 183
del d. lgs. 152/2006 (prima delle modifiche apportate dal d. lgs. 4/2008). La
Corte Costituzionale bocciò la qualifica “automatica” delle ceneri di pirite
come “sottoprodotti”, prevista dal d. lgs. 152/2006 antecedente alla modifica
del 2008, in quanto lesiva della
“verifica
in concreto” richiesta - appunto - dalla giurisprudenza europea. Con
sentenza 28 gennaio 2010, n. 28, ha infatti dichiarato illegittimo
l’inquadramento delle ceneri di pirite come sottoprodotto, conformemente alla
giurisprudenza comunitaria che impone, al fine di qualificare o meno come
rifiuto un materiale, un accertamento del «
complesso
delle circostanze (…) che non si arresti alla mera indicazione della natura
intrinseca del materiale» e ritenuto
illegittima
ogni “
presunzione assoluta” come
quella della norma in questione, che ha qualificato come sottoprodotti le
ceneri di pirite «
quale che sia la loro
provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore».
Segnala questa news ad un amico
Questa news è stata letta 951 volte.
Pubblicità