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"Il rischio rapina e la tutela dei lavoratori"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza sul lavoro
03/07/2015 -
Riprendiamo alcuni interessanti note - relative ad una sentenza sulla tutela dei lavoratori vittime di rapina -
che sono state pubblicate sulla rubrica “Il commento degli esperti”
del sito dell’Associazione Nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi
del lavoro ( Anmil).
I commenti, a cura dell’avvocato Mauro Dalla Chiesa (Consulente legale
Patronato ANMIL), riguardano in particolare la sentenza della Cassazione
Civile Sezione Lavoro del 13 aprile 2015 n. 7405.
Rischio rapina: la tutela del lavoratore danneggiato
Note alla sentenza della
Cassazione Civile Sezione Lavoro 13 aprile 2015 n. 7405
Avv. Mauro Dalla Chiesa -
Consulente legale Patronato ANMIL
Con la sentenza in oggetto la
Suprema Corte di Cassazione ritorna sull’argomento della tutela dei lavoratori
dipendenti di istituti bancari o postali vittime di rapina.
L’argomento è sempre di
attualità, così come le problematiche sottese alla
vexata quaestio della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.
Il caso concreto: C.M. aveva
citato in giudizio avanti alla competente Corte territoriale il proprio datore
di lavoro Poste Italiane s.p.a. in quanto sosteneva di aver subìto danni per
effetto di tre successive rapine avvenute presso l’ufficio postale in cui
svolgeva la sua attività lavorativa.
Sia il Giudice di primo grado che
la Corte di Appello, rigettavano la domanda del lavoratore sostenendo che la
responsabilità datoriale ex art.
2087 c.c. non aveva carattere oggettivo ed escludeva il nesso di causalità
tra la mancata adozione degli accorgimenti che si assumevano essere stati
omessi (sistemi di videosorveglianza, collegamento diretto con le forze
dell'ordine, sistemi di apertura a tempo ovvero di allarme interno) e la
verificazione degli eventi stessi.
Il lavoratore nonostante l’esito
negativo dei due gradi di merito, ricorreva in Cassazione sulla base di tre
articolati motivi.
Con il primo motivo lamentava che
il datore di lavoro non avesse utilizzato tutti gli strumenti tecnici messi a
disposizione dalla tecnologia all’epoca dei fatti.
Con il secondo motivo allegava
una violazione di carattere procedurale con riferimento all’allegazione delle
parti.
Con il terzo motivo denunciando
vizio di motivazione si doleva che la Corte territoriale non avesse preso in
considerazione tutte le misure effettivamente adottabili e non solo quelle
indicate dal ricorrente, benché la parte datoriale non avesse in concreto
adottato nessuna misura di tutela trascurando, altresì, l’effetto deterrente
che l’adozione di misure di sicurezza avrebbe potuto comportare.
La Suprema Corte di Cassazione
accoglie tutti e tre i motivi di ricorso del lavoratore rinviando di nuovo gli
atti alla Corte di Appello per il riesame della decisione.
Preliminarmente, gli Ermellini
considerano pacifiche le seguenti circostanze di fatto emerse nel corso del
giudizio di merito:
a) le rapine si sono tutte
consumate al di fuori dei locali dell'ufficio postale e, in particolare, nel
momento in cui il lavoratore era intento a sollevare la saracinesca che vi dava
accesso;
b) l'unica misura di tutela
attuata consisteva nell'essere il bancone protetto da vetri antisfondamento,
mentre nessun mezzo di sicurezza rivolto all'esterno era stato concretamente
realizzato ed attivato.
Secondo la Suprema Corte il
datore di lavoro ha l’obbligo di approntare quei mezzi di tutela, concretamente
attuabili secondo la tecnologia disponibile nel periodo, almeno potenzialmente
idonei a tutelare l'integrità fisica del lavoratore.
Questo non significa che tali
mezzi debbano essere in grado di impedire il verificarsi di episodi criminosi a
danno del dipendente, bensì che gli stessi dovevano consistere in quelle misure
che potevano risultare atte a svolgere, al riguardo, una funzione almeno
dissuasiva e, quindi, preventiva e protettiva.
Adottare il diverso principio
atto a ridurre l’ambito applicativo di cui all’ art.
2087 c.c. non è correttamente applicabile ad una fattispecie che, come
quella in esame, è contraddistinta dall'assenza di qualsivoglia misura
specificamente diretta ad impedire o prevenire o, comunque, rendere più
difficoltoso ed aleatorio il realizzarsi di eventi criminosi analoghi, nelle
loro modalità di realizzazione, a quelli in concreto verificatisi.
Sempre secondo la Suprema Corte
di Cassazione la sentenza impugnata non è coerente nemmeno sotto il profilo
motivazionale perché parte dal presupposto che i sistemi di videosorveglianza
possano valere in linea di massima solo per la successiva identificazione degli
autori dei reati, trascurando di considerare che, secondo ovvie regole di
esperienza, proprio tale possibilità è in sé produttiva di effetti dissuasivi
e, quindi, anche preventivi.
Altro vizio della motivazione è
costituito dal fatto che è stata esclusa la concreta efficienza causale di
altri mezzi di prevenzione non già in forza di regole certe di esperienza, ma
sulla base di opinabili congetture, alle quali, proprio perché tali, se ne
potrebbero contrapporre altre di segno del tutto contrastante.
La decisione richiamata, quindi,
è nel solco del costante orientamento di legittimità che specifica che gli
obblighi fissati dall’art. 2087 c.c. a carico dell'imprenditore in tema di
tutela delle condizioni di lavoro, non si riferiscono soltanto alle
attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o
deve fornire, ma si estendono anche all'ambiente di lavoro, in relazione al
quale le misure e le cautele da adottarsi devono prevenire sia i rischi insiti
in quell'ambiente sia i rischi derivanti dall'azione di fattori ad esso esterni
e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova.
Pertanto spetta allo stesso
imprenditore valutare se l’attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi
di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione.
Cfr. anche Cass. Civ. 11 aprile
2013 n. 8855.
Fonte: ANMIL
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