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"Le semplificazioni normative devono chiarire ruoli e responsabilità"
fonte www.puntosicuro.it / QUESITI
17/11/2015 - PuntoSicuro è un giornale che ospita spesso posizioni differenti
riguardo alle strategie di prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali nel mondo del lavoro. Quello che ci guida nella scelta
degli argomenti da trattare, nelle posizioni da riportare, nelle persone
da intervistare, è sempre l’idea che dal confronto di opinioni diverse
possano emergere non solo le divergenze, ma anche utili convergenze per
migliorare la tutela e la gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Presentiamo oggi le
posizioni di Confindustria sulla
normativa italiana, in materia di salute e sicurezza, e le proposte per
migliorarne l’applicazione e l’efficacia. Posizioni e proposte che
abbiamo raccolto attraverso un’intervista all’avvocato
Fabio Pontrandolfi, Responsabile salute e sicurezza sul lavoro di Confindustria.
Abbiamo incontrato Fabio
Pontrandolfi al “
II Forum Sicurezza”,
organizzato il 28 ottobre scorso a Milano da Ipsoa-scuola di
formazione, dopo la sua relazione sulle
criticità della normativa e le relative “
proposte di soluzione per una applicazione consapevole ed efficace”.
Uno dei punti di partenza della
sua relazione e della nostra intervista è un giudizio più volte espresso dalla
Corte di Giustizia comunitaria sulla nostra normativa
in materia di sicurezza.
Lei ha ricordato nella sua
relazione come la logica sottesa alla nostra normativa sia stata dichiarata
“diversa e incompatibile” rispetto al diritto comunitario...
Fabio Pontrandolfi:
La Corte
di Giustizia comunitaria, con riferimento alla certezza del diritto (C-49/00,
del 15 novembre 2001 e C-65/01 del 10 aprile 2003
) e la Corte Costituzionale ( Corte
cost., sent. n. 312/1996), con riferimento ai principi penalistici e
costituzionali della certezza del diritto e del carattere personale della
responsabilità penale e del diritto di difesa, hanno giudicato il nostro modo
di recepire le direttive comunitarie non conforme al diritto comunitario.
Questo perché la nostra normativa non permette di far conoscere ai destinatari,
quindi datori di lavoro e lavoratori, esattamente quali siano i contenuti delle
norme che devono regolare l’agire in materia di salute e sicurezza. Secondo il
diritto comunitario, invece, è indispensabile che l'ordinamento nazionale
garantisca effettivamente la piena applicazione della direttiva, che la
situazione giuridica scaturente da tale ordinamento sia sufficientemente
precisa e chiara e che i destinatari siano posti in grado di conoscere la piena
portata dei loro diritti ed eventualmente di avvalersene dinanzi ai giudici
nazionali.
Il giudice comunitario e la Corte Costituzionale hanno dunque criticato
apertamente ed espressamente l’interpretazione che il nostro legislatore e la
giurisprudenza hanno dato del sistema normativo comunitario e nazionale. In
effetti, secondo la nostra giurisprudenza, anche in assenza di norme
specifiche, il datore di lavoro deve sempre comunque conoscere, secondo le
regole dell'arte e della tecnica, quelli che sono gli adempimenti necessari in
materia di salute e sicurezza. Questo perché non sarebbe il legislatore a dover
sancire ex ante le regole, ma è il datore stesso che dovrebbe individuare le
regole ed i rischi.
Ma
un conto è valutare i rischi
sulla base di una normativa chiara, un conto è dover impropriamente
identificare il regime normativo, le regole e quindi gli obblighi e le
conseguenti sanzioni alle quali sottoporsi.
Nel nostro sistema il diritto costituzionale e il diritto penale
impongono invece al legislatore – e non certo al giudice, al suo interprete o,
peggio, allo stesso destinatario della normativa – la introduzione delle norme
e di garantirne la piena conoscibilità ex ante. Norme certe, chiare,
conoscibili da tutti, in modo che tutti gli attori possano concretamente essere
in grado di sapere cosa si deve fare.
È chiaro che un approccio normativo di questo tipo – orientato alla
certezza del diritto - deve essere gestito in modo intelligente. Cioè deve
essere sufficientemente chiaro ed evitare una responsabilizzazione in termini
oggettivi dell'impresa.
In questo approccio il legislatore dovrebbe regolare le previsioni di
diritto penale con la necessaria
certezza,
tassatività e determinatezza e, laddove ritenga - come in parte ha fatto
nel Testo Unico sulla salute e sicurezza del lavoro - rinviare a specifiche
norme tecniche, norme che sono elementi integratori della fattispecie penale,
norme non generiche, ma specifiche ed esplicitamente richiamate. A questo punto
il datore di lavoro ha la concreta possibilità di adeguarsi consapevolmente non
già alla generale norma penale, ma alla specifica norma tecnica assicurando,
così una tutela della salute e sicurezza secondo i più moderni standard
scientifici.
Nella sua relazione lei ha detto che le semplificazioni dovrebbero
portare ad una chiara individuazione riguardo “chi fa che cosa” in materia di
sicurezza nei luoghi di lavoro...
F.P.:
Il modello della
sicurezza è cambiato rispetto agli anni ‘50 e ’60. Allora si fondava sul
sistema “command and control” e c'era una sicurezza oggettiva, una sicurezza
tecnologica.
Con la direttiva comunitaria “madre”, e con tutte le direttive
comunitarie che ne sono discese, il legislatore comunitario ha completamente,
profondamente mutato l'approccio spostando il nuovo modello di fare sicurezza
sulla sicurezza soggettiva, sulla sicurezza comportamentale, sulla sicurezza
organizzativa.
E quindi i nostri legislatori si sono in qualche maniera adeguati a
questo diverso orientamento e lo hanno fatto indicando molto chiaramente - nel decreto 626/1994 e soprattutto nel
decreto 81/2008 - il concetto di organizzazione. E cioè stabilendo una
definizione delle diverse funzioni aziendali
e dei diversi ruoli all'interno dell'organizzazione - quello che fa il
datore di lavoro non lo fa il dirigente, quello che fa il dirigente non lo fa
il preposto, quello che fa il preposto non lo fanno i lavoratori - e
attribuendo coerentemente a ciascuno di questi soggetti distinte responsabilità
penali.
Ciascuno di questi soggetti, in queste diverse sfere di attribuzione,
ha
precise e diverse responsabilità.
Quindi il decreto 81/2008 si può
intendere esso stesso come un modello di gestione perché individua un percorso
organizzativo molto chiaro.
Tuttavia, in contrasto con questa impostazione, la giurisprudenza -
salvo un recente significativo orientamento della Corte di Cassazione – ha
sempre ricondotto ogni responsabilità sempre e comunque al datore di lavoro. Un
conto è affermare il principio secondo cui il primo responsabile della
sicurezza aziendale è il datore di lavoro, il che è assolutamente vero, ma in
termini penalistici questa affermazione deve fare i conti con il carattere
personale della responsabilità penale e il divieto di responsabilità oggettiva.
Il nuovo modello introdotto dalla normativa comunitaria responsabilizza tutti
gli attori secondo una logica di sicurezza comportamentale, nel quale ognuno ha
le proprie responsabilità.
La giurisprudenza non ha accolto questa profonda modifica e quindi, ad
esempio, ha sancito il principio che il lavoratore è responsabile solamente
quando tiene un comportamento abnorme, dove per abnorme si intende un
comportamento non già semplicemente colpevole, ma un comportamento totalmente
al di fuori delle logiche e dalle indicazioni dell'azienda, al di fuori o meno
dei compiti specifici del lavoratore. Il datore di lavoro viene dunque ritenuto
responsabile anche dei comportamenti colpevoli, imprudenti, imperiti del
lavoratore perché si tratterebbe di comportamenti prevedibili.
Affermare un principio del genere vuol dire deresponsabilizzare,
impropriamente ed in contrasto con le nuove disposizioni comunitarie, il
lavoratore. Primo perché la direttiva comunitaria si rivolge a tutti i soggetti
dell'organizzazione e assegna ai lavoratori un ruolo ben preciso. Secondo,
perché questo concetto che il lavoratore in colpa - perché imprudente, imperito
o non rispettoso delle norme e delle indicazioni aziendali - non sia
responsabile di quello che succede, nega i principi del diritto penale dove
alla colpa segue la responsabilità.
Solo recentemente la Corte di Cassazione sembra ripensare in modo
corretto questi concetti - con riferimento alla compartimentazione delle
competenze e delle responsabilità - per
evitare
una responsabilità oggettiva del datore di lavoro. Affermare che il datore
di lavoro è responsabile anche se non ci sono norme specifiche o affermare che
il datore di lavoro è responsabile di comportamenti colpevoli altrui, è una
affermazione sostanziale di responsabilità oggettiva.
A cosa serve erogare, ripetere ed aggiornare formazione, informazione e
addestramento se poi questa azione in materia di sicurezza non comporta un
cambiamento in termini di consapevolezza del cosa fare, di come farlo e delle
conseguenti responsabilità?
Bisogna almeno cominciare ad affermare – come ha iniziato solo ora a
fare la Cassazione - che
ciascuno è
responsabile secondo le proprie competenze e gli obblighi relativi a quella
sfera di competenza.
E questo la Cassazione, da ultimo, ha cominciato a farlo, a partire
dalla sentenza Thyssen affermando, appunto, una sorta di coerenza tra le
mansioni, il rischio e le responsabilità. La sfera di gestione del rischio è
quella che delimita – compartimenta, dice la sentenza - il ruolo e le
responsabilità di ciascuno dei soggetti coinvolti nel sistema della sicurezza:
a cominciare dal datore di lavoro, dal dirigente, dal preposto e dal
lavoratore.
Quindi se - previamente formato, informato e dotato dei necessari
dispositivi di protezione individuale dal datore di lavoro -
il
lavoratore, ad esempio, non indossa il casco quando dovuto, sale
sull'impalcatura ubriaco, non si mette gli occhiali, non indossa correttamente
i necessari DPI quando è in altezza, non si mette le scarpe antinfortunistiche,
la responsabilità per quel comportamento di per sé colpevole, o comunque non
rispettoso delle indicazioni della legge, ricade esclusivamente sul lavoratore
e l’obbligo di vigilanza e le connesse responsabilità ricadono esclusivamente
sul soggetto che non ha controllato che quegli adempimenti venissero fatti,
quindi il preposto (se correttamente individuato). E questo deve valere per
tutti gli altri soggetti, in relazione agli adempimenti di cui ciascuno è
destinatario e responsabile.
Che ne pensa delle nuove semplificazioni contenute nel D.Lgs. 151/2015
in attuazione delle deleghe del Jobs Act?
F.P.:
Il recente decreto non ha affrontato i veri temi che era
necessario affrontare: le vere semplificazioni sono quelle che servono a dare
certezza ex ante sui comportamenti.
Solo garantendo la certezza ex ante degli obblighi si può pervenire ad una
reale semplificazione del fare impresa, con evidenti positive ripercussioni a
favore di tutti gli attori della sicurezza. Un gruppo di lavoro della
Commissione Europea, presieduto da Edmund Stoiber, ha affermato che non sapere
cosa si deve fare può portare o a un eccesso negli adempimenti o a non fare ciò
che si dovrebbe.
La recente riforma
fiscale ha stabilito lo stesso principio: un conto è il rischio d’azienda, che
il datore deve sempre affrontare, un conto è l’incertezza del diritto che è
invece qualcosa da cui rifuggire.
Le recenti riforme
o semplificazioni che sono state fatte in materia di salute e sicurezza,
colgono aspetti che sono marginali, spesso non sono pienamente comprensibili e
ancora più spesso introducono ulteriori elementi di incertezza. Si pensi, ad
esempio, alla previsione secondo cui l’Inail,
in concorso con le Asl, individui degli strumenti tecnici che aiutino le
imprese nel fare la
valutazione del rischio, nel fare prevenzione. È questo quello che risolve il problema della
certezza del diritto? La presenza di una miriade di strumenti non porterà poi -
senza che l'adozione di questi strumenti generi una presunzione di conformità
alla normativa - a generare invece esattamente l'effetto contrario. Non porterà
ad una ancora maggiore incertezza del diritto? Secondo me, sì.
Anche perché si
tratta di posizioni che non rispettano quello che ha detto la Corte
Costituzionale: non siamo di fronte a comportamenti standardizzati a livello
generale (anche in relazione alle imprese che a livello europeo svolgono le
stesse attività). Si tratta di indicazioni del momento, non validate,
unilaterali, non condivise che non fanno che alterare ulteriormente quel
principio di certezza del diritto che invece richiederebbe poche norme, ma certe,
sicure e precise ed il rinvio a precise norme tecniche, ove ritenuto necessario
dal legislatore.
Volevo chiederle anche un commento su un tema che è stato affrontato
recentemente in molti convegni: i costi della non sicurezza e la convenienza
degli investimenti in sicurezza. Secondo lei investire in sicurezza è
effettivamente conveniente? E le aziende italiane investono sufficientemente in
sicurezza?
F.P.:
Sono assolutamente vere
le analisi che collegano l’investimento in sicurezza ad una maggior sicurezza e
che evidenziano come l’insicurezza costi molto più del fare sicurezza. E i
costi della non sicurezza sono molti. Ci sono innanzitutto i costi materiali.
Ad esempio quelli legati alla riparazione della macchina se è distrutta e
quelli diretti ed indiretti legati all’infortunio. Ma ci sono anche i costi
assicurativi, e quelli risarcitori per il danno. In materia penale ci sono poi
i costi di contenzioso e riguardo al decreto
231/2001 ci sono sanzioni economiche e conseguenze in termini di immagine
non indifferenti. Senza dimenticare la previsione relativa all’eventuale
sospensione dell’attività nei casi previsti dalla legge.
Il problema però è sempre lo stesso. Il costo della sicurezza, che in
realtà è un investimento e si traduce in valore per l’impresa, viene affrontato
in relazione alla certezza che l’investimento porterà un risultato. Se io non
ho la certezza sull’investimento da fare - perché da nessuna parte è scritto
qual è lo strumento di tutela necessario ovvero perché c’è sempre qualcuno che
dopo mi potrà dire che avrei potuto usare uno strumento migliore – investirò
senza la convinzione necessaria. L’investimento per le imprese è valore e nelle
imprese non c’è nulla che non sia orientato a un risultato.
Da questo punto di vista le imprese investono molto, sono pienamente
consapevoli che la sicurezza è un valore ed un vantaggio per il “fare impresa”.
Ma
se a questo valore si aggiungesse
anche il valore della certezza del diritto
l’investimento sarebbe molto più convinto, molto più diffuso, molto più
attento, oculato e mirato. E sicuramente potrebbe produrre interventi
migliori.
Non siamo di fronte solo ad una carenza di norme - perché la certezza
del diritto da sola non basta - ma manca anche un’impostazione culturale che si
sposti dall’adempimento alla gestione, dalla misura oggettiva ai comportamenti.
Si è visto che il 95% degli infortuni dipende dai comportamenti ed è la
formazione che interviene proprio sui comportamenti.
Noi dobbiamo poter verificare che l’effetto della formazione sia un
cambiamento di approccio, di comportamenti. La semplificazione deve andare
verso questo obiettivo.
Invece gli Accordi Stato-Regioni prevedono una complessità estrema dei
procedimenti per fare formazione, spesso inutilmente ripetitiva. Quando, ad
esempio, le Regioni non riconoscono reciprocamente ed automaticamente gli
accreditamenti dei soggetti formatori, quando si fanno Accordi complessi che
non badano alla sostanza ma più che altro alla forma, si annulla la valenza sostanziale
dell’investimento. Lo stesso accade quando non si semplifica l’intervento
formativo, consentendo – ovunque possibile – il ricorso all’e-learning, quando
non si riconosce ampiamente la formazione già fatta. E l’investimento viene
visto come un costo.
Inoltre, una formazione che non modifichi realmente i comportamenti non
è un investimento, ma è solamente un costo.
Lei ha parlato di regioni. C’è una posizione di Confindustria riguardo
al passaggio delle competenze in materia di salute e sicurezza esclusivamente
allo Stato? La Confindustria è favorevole?
F.P.:
La posizione è
favorevole, perche l’idea che in una materia ci siano tante istituzioni che possano legiferare ed interpretare la
normativa, senza univocità di indirizzi, non è accettabile. Non è accettabile,
ad esempio, che oggi i vari organi regionali di vigilanza applichino
diversamente la normativa perché manca un indirizzo comune.
Noi ad esempio abbiamo sempre chiesto che la
Commissione Interpelli stabilisca delle interpretazioni cogenti. E
invece questa indicazione non è mai stata seguita perché avrebbe significato
sottoporre gli organi di vigilanza ad un direttiva centrale e vincolante.
Al contrario, registriamo delle incoerenze: non comprendiamo ad esempio
perché tra i soggetti che possono fare gli interpelli siano state inserite
anche le Regioni. Le Regioni compongono la Commissione Interpelli: non sembra
coerente che una Regione faccia l’interpello e sia il collega della Regione
accanto o della stessa Regione a decidere l’esito dell’interpello. Tutto questo
priva di valenza sostanziale e di valore le decisioni della Commissione
Interpelli.
Lei immagini un’azienda localizzata in più regioni con ispezioni che
hanno risultati diversi a seconda dei diversi indirizzi interpretativi. Basti
pensare che ci sono ancora oggi organi di vigilanza che sanzionano le imprese
perché non hanno nominato i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza….
Anche in tema di accordi Stato- Regioni sulla tossicodipendenza, ad
esempio, sono sorti diversi problemi applicativi anche legati al fatto che
alcune Regioni hanno recepito l’Accordo con propri atti e, in alcuni casi,
hanno introdotto previsioni non contenute nell’Accordo stesso, in altri casi,
hanno introdotto discipline non conformi a quelle previste nel documento
adottato in sede di Conferenza Permanente Stato-Regioni, in altri ancora hanno
svolto una attività interpretativa, non uniforme a livello nazionale.
Dunque ben venga il riportare allo Stato sia il potere normativo che il
potere ispettivo.
L’intervista non poteva che
concludersi riportando le proposte di Confindustria per un applicazione
“consapevole ed efficace” della normativa sulla sicurezza.
Ci può dare, infine, qualche
indicazione delle proposte di Confindustria?
F.P.:
Di proposte ce ne
possono essere tante e chiaramente vanno da piccole proposte tecniche a
proposte di sistema.
Per esempio, dal punto di vista delle proposte di sistema, ci vorrebbe
una norma che, recependo la più recente giurisprudenza, chiarisca che non c'è
una responsabilità oggettiva in materia di salute e sicurezza, che c'è invece
una
distinzione tra ruoli, competenze e,
quindi, obblighi e sanzioni.
Il comportamento che viene imputato in termini di colpevolezza ad un
soggetto che ha la sfera di gestione di quel rischio, deve restare confinato in
quell'ambito. Ad esempio se si tratta di un problema di alta politica aziendale
o di spesa compete al datore di lavoro, se la responsabilità è organizzativa
compete al dirigente, se si è trattato di un problema di vigilanza compete al
preposto, se c’è una violazione delle norme o delle indicazioni aziendali in
merito all’esecuzione, riguarda esclusivamente il lavoratore.
Un’altra proposta è relativa alla
tassatività
delle norme. Le norme che il datore di lavoro, che i soggetti della
sicurezza devono rispettare, devono essere quelle tassativamente previste dal
legislatore.
Il legislatore deve garantire tassatività diretta. O, laddove lo
ritenga, deve fare riferimento a specifiche norme tecniche. Il datore di lavoro
e i soggetti della sicurezza devono essere responsabili per non aver adottato
le disposizioni tassativamente indicate dalla norma, ciascuno per la propria
sfera di competenza, ovvero alle norme tecniche specificatamente richiamate
dalle norme.
Nella sua relazione ha parlato
anche di altre proposte di semplificazioni, ad esempio in materia di formazione
e di sorveglianza sanitaria, con riferimento al tema alcol e droghe...
F.P.:
Indubbiamente gli
interventi sono tanti.
Ad esempio
è importante
riaffermare e confermare sul versante
della sicurezza quanto già è affermato dalla normativa specifica relativamente
alla
marcatura CE. Se io compro una
macchina con marcatura CE, nessuno può mettere in dubbio che essa non sia
conforme alle norme, a meno che non sia stata manomessa, il che fa perdere la
marcatura CE. Non si può affermare che una attrezzatura è a norma e, allo
stesso tempo, che è pericolosa.
Riguardo alla
sorveglianza
sanitaria in materia di alcol e droga è poi necessario superare gli attuali
accordi Stato - Regioni. Confindustria e Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un avviso
comune specifico. Il rischio va
valutato, la sorveglianza sanitaria va fatta, ma in coerenza con quelle che
sono le reali necessità delle imprese e dei lavoratori, senza scaricare sulle imprese
un improprio ruolo sociale per questi temi, la cui competenza deve restare
nella competenza dello Stato e delle istituzioni sanitarie e sociali.
È necessario rimuovere le numerose
incertezze
che caratterizzano il testo unico su salute e sicurezza. Si pensi ai
recenti terremoti ed al principio secondo cui gli edifici che ospitano i luoghi
di lavoro devono essere solidi e stabili. Un edificio è solido e stabile se
costruito secondo le regole tecniche vigenti al momento della costruzione.
Questo affermano le regole tecniche in materia edilizia. Occorre riaffermare
questo principio anche in materia di sicurezza, per evitare improprie
responsabilizzazioni delle imprese.
L’intervento deve riguardare anche alcuni versanti dell’
assicurazione contro gli infortuni e le
malattie professionali: occorre prevedere che sia malattia professionale
(riconducibile alla responsabilità del datore di lavoro) solamente quella
causata in modo diretto ed esclusivo da fattori professionali (il datore di
lavoro può intervenire solamente su questi e solo di questi può rispondere,
escludendo ipotesi in cui la malattia sia determinata anche da fattori
extralavorativi, sui quali non è ipotizzabile alcun intervento del datore di
lavoro); analogamente, per gli infortuni che non sono riconducibili ad
omissioni del datore di lavoro, perché non possono ricadere nella sua sfera di
gestione, come ad esempio gli infortuni occorsi in trasferta: in questo caso
occorre ovviamente tutelare il lavoratore, ma considerando l’infortunio come
infortunio in itinere, e non come infortunio sul lavoro.
Parliamo di
formazione:
Accordi Stato-Regioni troppo complessi, troppo onerosi, troppo limitanti, a
volte riferiti impropriamente ad ambiti che non possono disciplinare, perché
sottratti alla loro competenza. Ad esempio la formazione e-learning che ormai -
salvo per le parti specifiche, tecniche, operative - deve prevalere, perché si
è dimostrato scientificamente che raggiunge esattamente gli stessi obiettivi.
Una formazione coerente con i bisogni informativi dell’impresa e non stabilita
in modo astratto. Durate coerenti con i bisogni formativi e verifiche
altrettanto coerenti (non ha senso, ad esempio, fare un percorso e-learning e
poi pretendere una verifica in presenza, che annulla totalmente il senso del
percorso svolto). Altrettanto importante è il riconoscimento della formazione
pregressa che è importante per evitare inutili duplicazioni. Per quanto
riguarda la formazione bisogna evitare la sovrapposizione di corsi e
riconoscere la formazione già ricevuta, a qualsiasi titolo. In qualche modo l’emanando Accordo RSPP sta
forse disciplinando questi aspetti, ma ci sembra che non abbiamo ancora
raggiunto l’obiettivo di una reale semplificazione, di una reale presa di
coscienza che la formazione comporta un passaggio, un mutamento culturale nella
persona. Un mutamento che porti ad un cambiamento dei comportamenti e
all’assunzione delle responsabilità.
Ci sono molte altre semplificazioni che si potrebbero fare.
Ad esempio l’equiparazione dei soggetti (pubblici e privati) che fanno
le
verifiche periodiche delle
attrezzature, chiaramente si deve trattare di soggetti privati adeguatamente
formati e riconosciuti formalmente dal Ministero.
Sono necessarie poi semplificazioni in materia di
ambienti confinati, dove, ad esempio, è prevista una ripetitiva
informazione giornaliera di otto ore.
Sono importanti anche semplificazioni e chiarimenti in materia di
modelli di organizzazione: chi
stabilisce se un modello di organizzazione adottato è stato efficacemente
attuato? Quando la normativa fa riferimento a concetti generali – come
“efficacemente attuato” – lascia aperto lo spazio ad una interpretazione
eccessivamente discrezionale (si potrebbe, ad esempio, far riferimento alla
differenza tra inefficienze strutturali e occasionali, come già fatto dalla
giurisprudenza).
Sono tutte semplificazioni fondate sulla esigenza di conoscere ex ante
la normativa e di potersi adeguare ad essa in modo più consapevole, più
corretto, più convinto. Il che permette di superare l’attuale impostazione
fondata sulla responsabilità oggettiva e di far maturare una sicurezza diffusa,
effettiva ed efficace.
Intervista e articolo a cura di
Tiziano Menduto
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