News
"Formazione alla sicurezza: considerazioni di merito e di metodo"
fonte www.puntosicuro.it / Formazione ed informazione
16/06/2016 -
In
questo articolo ci riferiamo alla formazione erogata per assolvere l’obbligo
definito dal d.lgvo 81/08 e dall’Accordo Stato Regioni del dicembre 2011.
L’articolo 2, comma 1, lettera aa) del “testo unico” definisce la “formazione” come “processo educativo
attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema
di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla
acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi
compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei
rischi”. Allude quindi a non una singola attività, volta a realizzare un
adempimento di tipo formale (magari prevalentemente diretto a evitare
sanzioni), quanto a un vero e proprio insieme di iniziative finalizzate a
permettere a ciascuno di accrescere le proprie conoscenze in materia di
prevenzione dei rischi sul lavoro, di migliorare le proprie capacità operative
e soprattutto di aumentare la consapevolezza dell’importanza della prevenzione
e della protezione in ogni ambiente di lavoro. La condivisione di questo
principio cardine tra tutte le figure (lavoratori, preposti, dirigenti, medico competente, rappresentanti
dei lavoratori per la sicurezza) costituisce la prima e più efficace misura di
prevenzione in quanto allinea gli
insegnamenti erogati durante le attività formative “ufficiali” con la cultura
diffusa nel luogo di lavoro e con l’organizzazione d’impresa. Se l’impegno
aziendale è concentrato in altre direzioni, per esempio sulla produttività, e a
questa priorità viene sacrificata la prevenzione, quello che i dipendenti
percepiranno, al di là delle dichiarazioni di facciata, è che la sicurezza si
può trascurare: quando c’è uno scollamento tra quanto viene detto e quanto
viene agito, quello che passa realmente è ciò che viene fatto.
Lo scollamento
tra quanto viene ufficialmente detto nelle aule e nelle convention e quanto poi
realmente avviene durante il lavoro ha necessariamente delle ripercussioni sui
comportamenti dei sottoposti e le contraddizioni si scaricano ai livelli
inferiori, spesso proprio sui preposti, chiamati da un lato a vigilare sul
rispetto delle norme di sicurezza e dall’altro a farle disattendere per
privilegiare le esigenze produttive. O, in alcuni casi, a violarle essi stessi.
Per migliorare la sicurezza nei luoghi di lavoro, occorre
dunque ridurre queste discrasie in quanto i risultati della formazione
“formale” non possono che essere influenzati
dalla formazione “informale” che
percorre ogni attività presente nel posto di lavoro. Paradossalmente è questa
formazione continua e pervasiva che orienta maggiormente gli atteggiamenti e di
conseguenza i comportamenti delle persone. Nulla incide quanto la coerenza dei
messaggi e l’esempio concreto, ripetuto e generalizzato.
Dunque, se si vuole far crescere la cultura della sicurezza,
ciascuno, coerentemente con il ruolo che
ricopre, deve mandare un segnale non
contraddittorio che contribuisca al rafforzamento di essa.
Le norme indicano anche le
caratteristiche che la formazione dovrebbe avere: sia nell’art. 37 del d. 81
che nell’accordo stato Regioni ricorrono gli aggettivi “sufficiente ed adeguata in materia di salute
e sicurezza”.
Si tratta però di definizioni vaghe. Sufficienti rispetto a cosa?
Adeguate a che?
Questa ambiguità consegna la risposta all’interpretazione di chi
progetta i percorsi formativi che, di conseguenza, risultano assai disomogenei
tra loro. La formulazione stessa dei programmi che compare nell’Accordo Stato
Regioni autorizza a privilegiare la sfera delle conoscenze a scapito della
costruzione di atteggiamenti. Peraltro concentrarsi sulla trasmissione di
contenuti risulta molto più facile che cercare di incidere sulla cultura delle
persone. Nel primo caso basta padroneggiare gli argomenti o anche,
semplicemente, preparare delle slides da snocciolare in aula. Nel secondo
occorre confrontarsi con i discenti e con le loro cornici interpretative.
Il savoir faire che si richiede ai formatori in questo caso è assai più
complesso e articolato e comprende la capacità di ascoltare, di confrontarsi,
di valorizzare le esperienze e le diversità, di comporre conflitti, di gestire
le proprie e altrui emozioni. I contenuti cessano a questo punto di costituire il
baricentro per l’azione formativa, ma divengono il pretesto per acquisire quel
“deuteroapprendimento” cui faceva cenno Bateson. E quando si è imparato ad
apprendere, questa competenza può essere
trasferita da un contesto all’altro.
Di conseguenza la formazione
dovrebbe essere giudicata sufficiente
solo nel caso in cui abbia prodotto effetti abilitanti, cioè quando chi è stato
coinvolto sia in grado di elaborare pensieri autonomi in materia di sicurezza, di assumere comportamenti sicuri anche in
situazioni non previste e di scegliere tra più opzioni comportamentali quelle
adeguate a prevenire il rischio. Si dovrebbe definire “adeguata” una formazione
che contribuisca a ridurre quell’80% di eventi indesiderati che continuano a
verificarsi. Eventi, lo abbiamo già detto, dovuti all’errore umano.
Un’apertura in questo senso si può scorgere nell’art. 3 dell’Accordo
Stato Regioni ove si dice “la metodologia di insegnamento/apprendimento
privilegia un approccio interattivo che comporta la centralità del lavoratore
nel percorso di apprendimento” e specifica che è opportuno” garantire un
equilibrio fra lezioni frontali, esercitazioni teoriche e pratiche e relative
discussioni nonché lavori di gruppo… favorire metodologie di apprendimento
interattive ovvero basate sul problem
solving, applicate a simulazioni e situazioni di contesto su problematiche
specifiche … prevedere dimostrazioni, simulazioni in contesto lavorativo e
prove pratiche…”
Le indicazioni non sono precisissime e scontano probabilmente il fatto
che nella stesura del testo dell’Accordo gli esperti di andragogia e i
metodologi abbiano avuto poca o nessuna voce in capitolo. Leggendo il testo, si
sente che a proposito di metodologie si è solo orecchiato, senza andare a
fondo. Sarebbe infatti bastato un più preciso riferimento per esempio alla
notissima teoria dell’Experiential Learning di David Kolb [1]per
dare riferimenti operativi più chiari e per evitare quell’enfatizzazione dei contenuti che
inficia l’efficacia di molti interventi formativi in materia di sicurezza.
Il decreto 81 sembra comunque alludere in qualche modo a una centratura
sul ricevente, cioè a un’attenzione a rendere fruibile per i discenti quanto il
docente dice, ove prescrive che il contenuto della formazione sia facilmente
comprensibile per i lavoratori e che consenta loro di acquisire le conoscenze e
competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Lo stesso comma prosegue disponendo la
“verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel
percorso formativo” “ove la formazione riguardi lavoratori immigrati”.
Le non confortanti rilevazioni della conoscenza della lingua italiana
da parte di cittadini di madre lingua [2]suggeriscono
se non di proporre una prova analoga per i lavoratori italiani almeno una verifica iniziale della loro padronanza della
lingua e una costante rilevazione della comprensione, soprattutto quando si
faccia uso del linguaggio di precisione [3] o di sigle, acronimi ecc. Né i
risultati dell’indagine Pisa [4]
fanno sperare che ci si possa aspettare competenze maggiori da parte dei più
giovani.
Renata Borgato
Docente, formatrice e consulente
aziendale
[1] L'apprendimento esperienziale è un
processo dove la costruzione della conoscenza avviene passando attraverso
l'osservazione e la trasformazione dell'esperienza. Il ciclo è composto da quattro differenti stadi, l’esperienza concreta,
l’osservazione riflessiva, la contestualizzazione astratta e la sperimentazione
attiva. Questi quattro
stadi sostengono un processo di apprendimento efficace e completo. È possibile
iniziare l'apprendimento da qualsiasi punto del ciclo, e ciascuno stadio ha
bisogno di abilità diverse per essere svolto nel migliore dei modi.
[2] Vedere in proposito, per esempio,
le osservazioni del linguista Tullio De Mauro che, partendo da alcuni dati
raccolti da due ricerche straniere dice che il 71% della popolazione si trova
sotto il livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in
italiano di media difficoltà. Quindi secondo gli studi solo il 29% possiede gli
strumenti linguistici per usare con padronanza la lingua nazionale. Il 5% non è
in grado neppure di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma
decifrare solo testi di primo livello su una scala di 5 ed è a forte rischio di
regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di 2°
livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e
risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni
complesse e problemi della vita quotidiana (fonte La Repubblica, 28/11/2011).
[3] Con linguaggio di precisione qui si
indica il linguaggio specifico di qualunque disciplina, adatto a esprimere in
modo puntuale ed economico un concetto, utile per gli addetti ai lavori, ma non
sempre immediatamente comprensibile per gli altri.
[4] Secondo le rilevazioni Pisa
(indagine internazionale promossa dall’OCSE per valutare il livello di istruzione
degli adolescenti dei 65 principali paesi industrializzati) l’Italia è sotto la
media OCSE: 1/5 degli studenti
quindicenni italiani ha problemi con la lingua: Alla fine delle scuole
superiori gli studenti dovrebbero capire l’articolo di fondo di un giornale, ma
tra il 33 e il 40% degli studenti non capisce neppure i test Pisa, che pure
sono più facili di esso. In particolare non capiscono le parole e i predicati
verbali astratti (es. esimere, desumere)
Segnala questa news ad un amico
Questa news è stata letta 953 volte.
Pubblicità