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"Il mobbing nella recente giurisprudenza civile"
fonte www.puntosicuro.it / Normativa
15/01/2013 -
Nel
corso degli ultimi anni la giurisprudenza ha elaborato una definizione di
mobbing che possiamo ormai definire consolidata. Tale quantomeno da definire,
in assenza di una precisa previsione normativa, i requisiti che devono
caratterizzare il comportamento del datore di lavoro al fine di potere parlare
dell’esistenza di una situazione di mobbing contro il lavoratore.
Per
integrare una fattispecie di mobbing,
almeno secondo gli orientamenti della nostra magistratura, la condotta deve: 1)
presentarsi in modo continuativo e protratto nel tempo; 2) essere tenuta nei
confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro; 3) concretizzarsi in
comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, nonché
esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto,
espressivi di un disegno finalizzato alla persecuzione o vessazione del
lavoratore, tale da fare conseguire un effetto lesivo sulla salute psicofisica
dello stesso. È necessario inoltre dimostrare il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità
psico-fisica del lavoratore.
L’anno
2012 si è aperto con due sentenze che, pur confermando in pieno il costante
orientamento giurisprudenziale sul tema, sottolineano l’importanza della
produzione in giudizio delle prove di tutti gli elementi costituenti la
fattispecie.
La
prime delle due sentenze cui si accennava è la n. 87/2012, emessa dalla Corte
di Cassazione, Sezione Lavoro, in data 10 gennaio 2012. Il caso su cui la Corte
di legittimità è stata chiamata a pronunciarsi riguarda un funzionario di banca
che, dopo avere rassegnato le dimissioni, le aveva impugnate, assumendo che
queste fossero viziate da incapacità, chiedendo la reintegra sul posto di
lavoro. Il ricorrente chiedeva altresì il risarcimento del danno derivante da
mobbing, nonché il risarcimento derivante dal demansionamento che assumeva di
avere subito. Il Giudice di merito, così come la Corte d’Appello, avevano
respinto il ricorso. Nel caso di specie, la Cassazione ha definito infondati i
motivi di censura avanzati dal ricorrente, sulla base, in primo luogo, della
considerazione per cui l’apprezzamento circa la sussistenza, in concreto, degli
estremi del mobbing costituisce una valutazione di merito che, ove basata su
una motivazione adeguata e priva di vizi logici, sfugge al sindacato di
legittimità. La Cassazione ha ritenuto che la Corte territoriale avesse infatti
motivato in modo completo le ragioni per le quali aveva escluso la sussistenza
degli estremi del mobbing. In particolare era stato osservato che la
vicenda lavorativa del ricorrente si era sviluppata nei limiti della normalità,
atteso che il rapporto di lavoro si era svolto secondo modalità congrue
rispetto alla natura delle prestazioni, alle obbligazioni reciproche ed agli
interessi delle parti contrattuali. Non era stato poi possibile ravvisare un
nesso causale fra la patologia psichica da cui era risultato affetto il
lavoratore ed il disagio derivante dall’ambiente lavorative e che non era
nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili delle condotte. Il
ricorrente, quindi, non era stato in grado di provare le vessazioni subite ed
il danno che da queste era derivato.
Questa
prima sentenza è interessante perché, pur negandone l’esistenza nel caso di
specie, offre una definizione di “mobbing”, basata sul costante orientamento
della giurisprudenza. Viene infatti ribadito che il fenomeno si debba
sostanziare in una condotta perpetrata dal datore di lavoro, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di
lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che
finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica,
da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso
della sua personalità.
La
seconda sentenza di rilevo è stata pronunciata dal Consiglio di Stato, sezione
IV, ed è la n. 14/2012. Il fatto riguardava una lavoratrice che chiedeva
l’annullamento di una sanzione disciplinare (5 giorni di sospensione dal lavoro
e dalla retribuzione), nonché il risarcimento dei danni alla persona, morale e
biologico, sofferto in conseguenza della sanzione irrogata. In particolare la
vicenda lavorativa della ricorrente aveva portato l’Amministrazione a comminare
una serie di provvedimenti disciplinari, tutti impugnati dalla lavoratrice, e
questa, avendo richiesto più volte la riunione dei procedimenti pendenti, aveva
sostenuto che, esaminandoli nel complesso, sarebbe stato facile per l’ organo
giudicante ravvisare l’intento persecutorio ed il disegno cui il comportamento
del datore di lavoro era preordinato. La ricorrente aveva depositato, nel corso
dei precedenti gradi del giudizio, certificazioni mediche attestanti le
patologie che la affliggevano, nonché la coincidenza temporale tra l’irrogazione
dei provvedimenti e il peggioramento delle condizioni di salute della stessa.
In
primo grado il Giudice aveva annullato la sanzione disciplinare inflitta, ma
aveva escluso l’esistenza di danni risarcibili. All’esito di questa vicenda il
Consiglio di Stato ha respinto l’appello accogliendo le motivazioni del primo
giudice, e quindi sostenendo che la sanzione disciplinare era stata annullata a
causa di un vizio procedimentale (la contestazione non era stata elevata
tempestivamente), ma che la supposta lesione derivava da un effettivo
inadempimento della ricorrente. Non poteva quindi ritenersi esistente un
intento persecutorio del datore di lavoro, né una condotta ingiustamente
afflittiva, posto che la ricorrente aveva certamente commesso le infrazioni disciplinari
contestate. In questa seconda vicenda quindi, quello che la ricorrente non era
stata in grado di provare, è stata la sussistenza dell’intento persecutorio,
nonché il carattere afflittivo della condotta.
Le
due sentenze sono emblematiche di una evoluzione degli orientamenti della
magistratura perché, pur riconfermando tutti gli elementi della definizione
giurisprudenziale di mobbing, sono il sintomo di una “stretta” sul tema e della
particolare attenzione che è necessario porre sull’importanza dell’assolvimento
degli oneri di allegazione probatoria richiesti.
Alla
luce di questa recente evoluzione è possibile procedere ad una breve
esemplificazione della casistica di cui si è occupata, quantomeno in tempi
recenti, la giurisprudenza, soprattutto dal punto di vista delle “forme” che la
condotta mobbizzante può assumere.
Il
comportamento ostile ed esorbitante la normale gestione del rapporto di lavoro
può concretizzarsi nella dequalificazione professionale del lavoratore, il
quale può essere adibito, con intento vessatorio o punitivo, a mansioni inferiori.
In tema la Corte di Cassazione si è pronunciata sul danno non patrimoniale
derivante dalla dequalificazione con la sentenza n. 3057 del 29.2.2012
(riconoscendo l’esistenza di un danno non patrimoniale ad un lavoratore
spostato ad un diverso ufficio, con attribuzione di una qualifica inferiore).
Ancora,
il lavoratore può essere posto in una condizione di forzata inattività
preordinata all’esclusione dello stesso dal contesto lavorativo. In tema si
segnala l’ordinanza 18 maggio 2012, n. 7963, emessa dalla Corte di Cassazione,
la quale (in realtà senza parlare chiaramente di mobbing) afferma che “il
comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il
dipendente, oltre a violare l'art. 2103 cod. civ., è lesivo del fondamentale
diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della
personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità
del dipendente. Tale comportamento implica una lesione di un bene immateriale
per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come
esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel
contesto lavorativo.
Pertanto,
secondo la Corte, tale lesione produce automaticamente un danno suscettibile di
risarcimento, anche attraverso una valutazione operata in via equitativa. Al
contrario, se la violazione del diritto del lavoratore a svolgere la propria
prestazione prescinde da uno specifico intento di svilire o declassare il lavoratore
a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità del datore di
lavoro deve, però, ritenersi esclusa.
La
condotta mobbizzante si può concretizzare anche in comportamenti denigratori e
persecutori di vario genere, quali ad esempio, la diffusione di notizie false
sul conto del lavoratore o le quotidiane critiche sul suo operato o, ancora, le
avances a carattere sessuale di un datore di lavoro ai danni di una dipendente.
Costituisce
mobbing l'irrogazione di una serie di provvedimenti disciplinari infondati (che
non hanno, quindi, alla base infrazioni commesse dal lavoratore),
sproporzionati o manifestamente eccessivi adottati nel quadro di una specifica
volontà di precostituire una base per disporre il licenziamento. A tal
proposito, si evidenzia come i comportamenti vessatori in cui si estrinseca la
condotta mobbizzante siano spesso preordinati allo scopo di portare il dipendente
alle dimissioni, ovvero, appunto, di predisporre una base per il licenziamento.
In
tema si cita la sentenza della Corte di Cassazione n. 15353 del 13 settembre
2012, con cui la Corte ha cassato una pronuncia con la quale la Corte d’Appello
aveva respinto il ricorso di un dipendente che chiedeva la reintegrazione sul
posto di lavoro sulla base dell’illegittimità del licenziamento irrogato a
seguito del fatto che il dipendente si era rivolto ai propri datori di lavoro
definendoli “ladri”. A prescindere dalle vicende del caso concreto, in cui
rileva anche la tematica dell’efficacia del giudicato penale nel processo
civile (il dipendente era stato assolto, in sede penale, dall’accusa di
ingiuria), quel che rileva in questa sede è che la Corte pare ravvisare nella
condotta mobbizzante attuata dai datori di lavoro nei confronti del dipendente
- a seguito di un infortunio - il potere di costituire una provocazione che
giustifica la reazione del lavoratore.
Fondamentale,
oltre al tipo di comportamento posto in essere, è anche la verifica circa la
sussistenza dell’elemento soggettivo, ovvero l’intento persecutorio ed il
disegno cui tutti i comportamenti sono preordinati. In proposito, si segnala
che comportamenti quali il lancio dello stipendio sulla scrivania del
dipendente o la consegna della retribuzione in un sacco di monetine non sono
stati considerati sufficienti a far scattare il mobbing,
in quanto, in giudizio, non era stata data la prova di un atteggiamento
discriminatorio o persecutorio nei confronti del lavoratore.
Quanto
al soggetto che deve mettere in atto la condotta, se l’artefice della
persecuzione è spesso il datore di lavoro, talvolta è possibile che ne siano
colpevoli anche i colleghi del lavoratore che si uniscono alla strategia di
isolamento e di vessazioni. Occorre precisare, tuttavia, che in assenza di
dolo, comunque, può sussistere una responsabilità imprenditoriale
ex art.
2087 c.c. per aver omesso di adottare quei controlli, per esempio sui propri
sottoposti, che, se compiuti, non avrebbero cagionato il sorgere dell' evento
lesivo.
Come
già detto, la condotta deve svilupparsi in un arco di tempo apprezzabile, in
quanto non si ravvisa mobbing risarcibile se le condotte vessatorie e
persecutorie del datore di lavoro non presentino i requisiti della frequenza
costante in un arco di tempo sufficientemente esteso, frequenza che può essere
determinata in almeno una volta alla settimana in un arco temporale di almeno
sei mesi.
Con
specifico riferimento agli elementi dell’’intento persecutorio e della
frequenza della condotta, risulta necessario dare atto di una recente sentenza
della Corte di Cassazione, emessa in data 5 novembre 2012, n. 18927, la quale
ha stabilito che anche nel caso in cui non si tratti di conclamato mobbing il
datore di lavoro è, comunque, responsabile ed obbligato al risarcimento dei
danni cagionati al lavoratore a causa delle azioni vessatorie. Nell'ipotesi in
cui, infatti, il dipendente chieda il risarcimento del danno all’integrità
psico-fisica, in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di
lavoro di natura vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata
insussistenza di un disegno persecutorio preciso ed idoneo ad unificare tutti i
singoli episodi (quindi della configurabilità del mobbing), è tenuto a valutare
se alcuni dei denunciati comportamenti pur non essendo accomunati dallo stesso
intento persecutorio, possano, di per sé, essere, comunque, considerati
mortificanti e vessatori per il dipendente stesso.
Pur
non modificando i requisiti della condotta richiesti dalla giurisprudenza per
ravvisare il fenomeno del mobbing, si ritiene che la sentenza sia importante,
in quanto si rende possibile, per il lavoratore, ottenere un risarcimento,
anche nel caso in cui questi sia vittima di singoli episodi aventi natura
vessatoria, pur mancando l’ unicità del disegno.
Si
ritiene peraltro l’intento persecutorio sia proprio il più complesso fra gli
elementi che caratterizzano la fattispecie, sia dal punto di vista
dell’accertamento, sia dal punto di vista degli oneri di allegazione che
gravano sul dipendente. Sebbene la giurisprudenza permetta il più ampio
utilizzo dei mezzi di prova a disposizione del lavoratore, la difficoltà di
provare che sotteso ai comportamenti del datore di lavoro vi sia un simile
intento è di tutta evidenza e rappresenta uno dei nodi certamente più spinosi
della materia.
Giulia Tolve
Scuola
internazionale di Dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA,
Università degli Studi di Bergamo
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