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"Salute sul lavoro: depressione, benessere organizzativo e produttività"
fonte www.puntosicuro.it / Salute
16/04/2013 - “
Oggi si sta male nei luoghi di lavoro”, i
lavoratori “si ammalano e le malattie psicosomatiche sono in aumento; lo
stress riduce la prestazione lavorativa sia manuale che intellettuale
ed aumenta il rischio di errori e di infortuni” e si ricorre ad “abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza, di depressione e di vera rassegnazione”.
Queste alcune frasi tratte da una intervista di PuntoSicuro a
Rosanna Gallo,
psicologa del lavoro, specializzata in benessere organizzativo, già
docente di “Promozione del benessere organizzativo” all’Università di
Parma e componente del Comitato Scientifico Asicus.
L’abbiamo intervistata in relazione al convegno “
Benessere Organizzativo & Produttività Aziendale” che si è tenuto a Milano l’11 marzo 2013 - organizzato da TEC, la scuola di formazione del Gruppo Bosch in Italia, in collaborazione con Ranstad, Technogym e Virgin – di cui Rosanna Gallo era moderatrice.
Convinti che la prevenzione dei rischi psicosociali, anche in conseguenza delle ripercussioni sul mondo del lavoro della crisi economica, sia sempre più la " nuova frontiera" della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, le abbiamo dunque posto alcune domande sul tema del
benessere e malessere nei luoghi di lavoro.
Partiamo da alcuni dati: nell’Unione Europea la condizione
di stress interessa circa il 22% dei lavoratori, mentre in Italia siamo
al 27% con un evidente criticità rispetto agli altri paesi europei. E la
depressione, secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e salute sul
lavoro, diverrà ben presto la principale causa di congedo per malattia
in Europa. Cosa sta succedendo nei luoghi di lavoro? E ha senso parlare
di benessere in questo periodo di crisi occupazionale?
Rosanna Gallo: Oggi si sta male nei luoghi di
lavoro. L’incertezza e la paura di perdere il lavoro portano a
comportamenti difensivi, per cui le persone non si espongono, non
decidono e si rendono invisibili; purtroppo si ammalano e le malattie
psicosomatiche sono in aumento; lo stress riduce la prestazione
lavorativa sia manuale che intellettuale ed aumenta il rischio di errori
e di infortuni, riduce la memoria e la flessibilità. Le persone e
ricorrono ad abusi di farmaci per mascherare il sentimento di impotenza,
di depressione e di vera rassegnazione. Nel 2000 scrissi un articolo
proprio sulla
depressione organizzativa, non da attribuire alle singole persone, ma al clima organizzativo.
Ecco, oggi la situazione si è estremizzata e amplificata: oggi ci sono i
suicidi veri
o tentati, anche inconsapevolmente, che mettono a rischi persone e
organizzazione. Avrei preferito fare prevenzione dei rischi psicosociali
nei luoghi di lavoro, ma oggi è diventato indispensabile agire con
interventi per la promozione del benessere organizzativo. Oggi è
diventata un’emergenza, perché dopo la depressione sta emergendo la
rabbia che può essere molto distruttiva.
Definiamo il
benessere organizzativo. Quali sono i vantaggi pratici per i lavoratori e per i
datori di lavoro? E quale è il rapporto tra benessere organizzativo e
produttività aziendale?
RG: Il
benessere organizzativo (b.o.) si
riferisce alle politiche di prevenzione e promozione della salute e sicurezza
intese in senso ampio. Ad esempio parliamo di sicurezza fisica (prevenzione
infortuni) e sicurezza psicologica (prevenzione stress), ma anche di processi e
comportamenti che promuovono il benessere organizzativo: la formazione, la
meritocrazia, politiche di equità e di pari opportunità, la valorizzazione
delle diversità (di età, di genere e culturali) e soprattutto il lavoro in
team; infatti il gruppo di lavoro è un forte ancoraggio per le politiche di
sicurezza, perché protegge e sviluppa le persone e l’organizzazione allo stesso
tempo.
I
vantaggi del benessere organizzativo
sono numerosi: le persone, se non devono dedicare energie nel nascondere il
proprio stress/malessere, ne hanno da investire per innovare e produrre con
maggiore qualità. Le persone che si sentono riconosciute nel contribuire allo
sviluppo dell’organizzazione sono più coinvolte e appartenenti e più
soddisfatte e solidali; dimostrano una maggior resilienza allo stress e minori
possibilità di malattia e
assenteismo.
Il datore di lavoro trae il vantaggio del minor assenteismo e maggior
produttività.
Le
ricerche più recenti evidenziano che il denaro investito per
il b.o. ha un ritorno medio di 4 volte
tanto.
Se, come indicato
da alcune ricerche del 2012, il lavoratore felice ha performance più elevate,
ha un tasso di logoramento inferiore, ha minore assenteismo e minore necessità
di assistenza sanitaria, come è possibile che solo oggi si pensi al benessere
organizzativo? Cosa impedisce che questa diventi una strategia condivisa dalle
aziende?
RG: Se ne parla da
anni, ma è sempre stato vissuto come un argomento “snob”, per poche aziende che
avevano già fatto tutto. E non avevamo tutte le ricerche, di cui disponiamo
oggi, a supporto. In questi giorni, alcune aziende milanesi più illuminate si
stanno organizzando per condividere una strategia comune, ma altre continuano a
mantenere un clima ricattatorio per cui quando un lavoratore non è più al
massimo della propria efficienza viene …sostituito da un altro…
Abbiamo a suo
parere in Italia un management, dei datori di lavoro, delle società all’altezza
di questi difficili compiti? C’è più attenzione al benessere organizzativo in
altri paesi?
RG: Purtroppo in questi
ultimi anni la crisi ha “paralizzato” molte aziende che, nel dubbio, non hanno
fatto nulla ed hanno perso anni. Il management italiano non ha goduto di
formazione e sviluppo necessari ad affrontare le sfide con maggior coraggio,
indipendenza e spirito critico e si adegua alle richieste dell’imprenditore con
uno
spirito poco orientato a promuovere
cambiamento.
Affrontare
la crisi aumentando le ore di presenza in ufficio non migliora la situazione,
mentre i colleghi stranieri traggono vantaggio dall’uscire dal lavoro in tempo
per fare sport, bere qualcosa con gli amici e occuparsi dei familiari prima di
essere troppo stanchi.
Spesso quando si
parla sia di malessere che di benessere nel mondo del lavoro si fa riferimento
alla flessibilità lavorativa. Secondo lei la flessibilità è da intendere come
un fattore positivo o negativo per il benessere del lavoratore?
RG: La flessibilità
dovrebbe essere positiva per tutti, perché dovrebbe incontrare le esigenze
della persona e dell’organizzazione; in realtà assistiamo spesso a flessibilità
a senso unico e spesso solo in funzione delle esigenze organizzative.
Quali sono i
principali indicatori di malessere nelle organizzazioni? E come questo
malessere si trasforma in depressione, in rassegnazione, in rabbia? Mi pare che
lei si sia occupata in passato anche di alcuni casi di suicidio...
RG: Quando si entra
nelle organizzazioni si comprende subito il clima, se c’è fiducia e rispetto,
se il merito è riconosciuto, se le persone sentono di poter crescere e
contribuire, se si può imparare da un errore, chiedere aiuto o se non si è
capaci di affrontare diversità e gestire i conflitti. Lo
stile di leadership definisce molto le relazioni di collaborazione
o competizione interna.
Il
suicidio è un caso estremo di
malessere in cui si è persa la speranza e ci segnala il senso di grande
solitudine del lavoratore: l’impossibilità di potersi esprimere con gli altri
di poter chiedere aiuto, di condividere un sentimento di depressione.
Mi pare che in
alcune proposte di intervento per migliorare il benessere organizzativo ci sia
la proposta di portare a galla il dolore affettivo - ad es. legato ai
demansionamenti - in azienda. Quale è il ruolo dell’emozione nei luoghi di
lavoro? E cos’è l’intelligenza emozionale?
RG: Il ruolo delle
emozioni è fortemente comunicativo e produttore o sabotatore di energia per le
persone e per i team. Le emozioni positive costituiscono la base di quella
fiducia necessaria alla collaborazione e alla creatività che promuove
innovazione. Il senso di perdita che le persone provano, ad es. durante
riorganizzazioni, è dato dalla perdita del ruolo e del team di appartenenza.
Anche se si mantiene il posto di lavoro si vive la perdita dell’identità
lavorativa (quasi totalizzante per gli uomini) e si sperimenta la
sindrome dei sopravvissuti (alla prima
ondata di uscite di personale) col pensiero che la volta successiva non si avrà
la stessa fortuna.
L’
intelligenza emozionale è l’emozione
compresa mentre la si prova. Ad es. se l’emozione della paura (di perdere il
lavoro) fosse espressa da qualcuno del gruppo di lavoro tutti i suoi membri se
ne avvantaggerebbero nel sentirsi meno soli. Inoltre, la condivisione della
paura ne abbasserebbe l’ intensità per tutti, mettendo a disposizione maggior
energia da destinare alla costruttività, anzichè alla difesa.
In conclusione per
spingere le aziende a considerare e a attuare strategie che portino al
benessere organizzativo, cosa è necessario che accada? Bisogna sensibilizzare i
lavoratori? O i datori di lavoro? O addirittura si deve arrivare a qualche
nuova legge?
RG: Abbiamo abbastanza
leggi, ma poca informazione sui vantaggi sociali ed economici del benessere
organizzativo.
Ogni anno ci sono premi per le aziende che promuovono benessere, ma per alcuni
è ancora un argomento frivolo. Oggi abbiamo molti dati e best practice a
supporto e dobbiamo solo aumentarne la diffusione sia per i datori di lavori
che per le organizzazioni sindacali, perché la sostenibilità del lavoro andrà
in questa direzione.
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