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"Spazi confinati: la certificazione dei contratti di subappalto"
fonte www.puntosicuro.it / Sicurezza
14/03/2014 -
Dopo oltre un anno dalla sua entrata in vigore, sono ormai più che evidenti le principali criticità associate all’applicabilità del D.P.R. 177/2011, a cominciare dalla definizione stessa di
ambiente sospetto di inquinamento o confinato.
Più volte si è scritto sul tema e quindi non ritengo opportuno entrare
nel merito in questa sede. Tuttavia è evidente che proprio nella
definizione di cosa sia o non sia un ambiente confinato o sospetto di inquinamento e
quale sia l’effettivo livello di rischio associabile alle attività
previste, si rappresentano le precondizioni fondamentali per applicare
adeguatamente qualsiasi misura di prevenzione efficace.
Ciò premesso, nell’ultimo periodo
l’attenzione di diversi commentatori si è concentrata sul tema della
certificazione dei contratti di subappalto
così come prevista nell’ambito del Decreto.
Riguardo alle attività lavorative
in ambienti
sospetti di inquinamento o confinati, è noto che il Legislatore ha deciso
di richiamare un istituto che, nella sua struttura originaria, nasce come
adempimento di carattere volontario avente la finalità di consentire
l’accertamento della distinzione concreta tra somministrazione di lavoro e
appalto, così da ridurre i contenziosi. Alcuni affermano che quest’adempimento
possa contribuire all’eliminazione o riduzione al minimo i rischi in un settore
caratterizzato da gravi incidenti, mentre altri pongono invece l’accento sul
fatto che, in questi specifici ambienti operativi, una stringente applicazione
dei presupposti concettuali di matrice giuslavoristica non fornisce alcun
concreto incremento del livello di sicurezza sul luogo di lavoro. Anzi. La
rigidità che è imposta dall’attuale testo normativo, per quanto si può
percepire nella pratica corrente, si traduce in un notevole appesantimento
degli adempimenti a carico delle aziende incaricate di eseguire le attività e
tale condizione, spesso, corre il rischio di attivare scorciatoie o
applicazioni formali del disposto normativo, ritenuto troppo complesso e
difficile da attuare. Indipendentemente dalle singole opinioni soprariportate,
ciò che appare evidente è che se prendiamo in considerazione tutte quelle
attività per le quali ci si trova nelle condizioni di richiedere l’intervento
di una ditta specializzata quale supporto all’appaltatore principale che è
stato incaricato dal committente di compiere una riparazione urgente,
la certificazione del contratto mostra
appieno la sua
criticità di
applicazione. Infatti, se consideriamo l’esempio di un guasto a una pompa
immersa installata all’ interno
di un serbatoio/vasca configurabile come ambiente confinato o sospetto di
inquinamento, è evidente che la ditta che viene incaricata della riparazione
(solitamente con contratto a corpo per l’intero intervento) dovendo prevedere
la bonifica preventiva dell’ambiente di lavoro e non avendo nell’ambito della
propria organizzazione né le attrezzature necessarie per eseguire tali attività
(poiché non fanno parte del proprio core-business) né la struttura
autorizzativa/ gestionale per il trasporto e smaltimento dei rifiuti che da
tale lavorazione derivano, si rivolgerà a una ditta specializzata operante nel
territorio in cui è ubicato lo stabilimento all’interno del quale è previsto
l’intervento. E in questo caso scatterebbero gli adempimenti previsti dal
Decreto per il subappalto e la relativa certificazione.
Se prendiamo in esame anche un
altro caso, sostanzialmente diverso dal precedente, ma che comporta
l’applicazione del disposto che si riferisce alla certificazione del contratto
di subappalto, possiamo evidenziare ulteriori limiti applicativi della prevista
certificazione. Ipotizziamo che un’azienda di livello internazionale abbia, nel
tempo, deciso di esternalizzare i servizi di assistenza dei propri prodotti
(che risultano essere installati per lo più nell’ambito di ambienti
riconducibili nel campo di applicazione del D.P.R.
177/2011) affidandoli, attraverso contratti annuali, a officine
specializzate (alcune di queste avviate su iniziativa di ex dipendenti), distribuite
sul territorio nazionale. Restando titolare del marchio e punto di riferimento
per l’utenza Worldwide, la casa madre riceve le varie richieste d’intervento e
quindi le inoltra alle varie officine che, oltre alla propria normale attività
diretta d’impiantistica e manutenzione, si trovano quindi a operare come sue
subappaltatrici. E anche qui scatterebbero gli adempimenti previsti dal Decreto
per il subappalto e la relativa certificazione.
Bisogna però precisare che mentre
nel primo caso le parti coinvolte oltre al committente (appaltatore e
subappaltatore) non è detto che siano sempre le stesse, giacché l’appaltatore,
operando su tutto il territorio nazionale si trova a interagire con differenti
imprese specializzate operanti a livello locale, nel secondo caso le parti sono
chiaramente identificate e sebbene anche in questo caso la tipologia
d’interventi non sia programmabile, sarebbe però ragionevolmente possibile
ipotizzare un’unica certificazione del contratto di subappalto a valere ai
sensi dell’art.2 c2 del D.P.R. 177/2011. Ovvero definire un sistema organico di
gestione delle attività nell’ambito di un’unica certificazione quadro del
rapporto tra le parti, che preveda una specifica procedura operativa
applicabile per ogni intervento e una sorveglianza periodica tesa a verificare
la permanenza nel tempo delle condizioni che hanno consentito la certificazione
del contratto e la corretta applicazione della procedura stabilita. Questa
ipotesi potrebbe, forse, trovare un’estensione anche all’atro caso presentato,
ove si dovesse prevedere e certificare l’implementazione di un più generale
sistema di gestione dei rapporti contrattuali connessi alle attività in
ambienti sospetti di inquinamento o confinato che, sottoposto a un’analoga
sorveglianza periodica utile alla verifica della corretta applicazione di
quanto stabilito a livello di sistema di gestione, potrebbe consentire di
superare gli evidenti limiti temporali, dimensionali e geografici dell’istituto
della certificazione. Infatti, oltre al problema giurisdizionale, sono anche da
considerare le specifiche
previsioni
procedurali e documentali previste dall’iter di certificazione:
- l’inizio del procedimento deve
essere comunicato alla Direzione Provinciale del Lavoro che provvede a
inoltrare la comunicazione alle Autorità pubbliche interessate (committenti o
di vigilanza) nei confronti delle quali l’atto di certificazione è destinato a
produrre effetti;
- nell’ambito delle attività
della Commissione di certificazione, oltre all’acquisizione della prescritta
documentazione, è prevista anche l’audizione delle parti al fine di acquisire
elementi di giudizio utili alla corretta valutazione dell’istanza di
certificazione;
- l’atto di certificazione deve
essere motivato e contenere il termine e l’Autorità cui è possibile ricorrere;
- l’atto di certificazione deve
esplicitare gli effetti civili, amministrativi, previdenziali e fiscali in
relazione ai quali le parti chiedono la certificazione;
- i contratti certificati e la
pratica devono essere conservati presso le sedi di certificazione per almeno
cinque anni a far data dalla loro scadenza
Secondo quanto stabilito, il
procedimento di certificazione dovrebbe
concludersi entro trenta giorni; peraltro, ai sensi dell’art. 3, comma 1,
ultima parte, del D.M. 21 luglio 2004, poiché il concetto “documentazione”
utilizzato nella norma va inteso in senso funzionale e non meramente materiale,
il termine dei trenta giorni decorre nuovamente dal momento in cui la
Commissione acquisisce nelle proprie disponibilità tutta la documentazione,
anche istruttoria, ulteriormente richiesta a integrazione, necessaria a dare
seguito all’istanza, ivi compresa la prospettazione degli elementi di fatto
richiesti alle parti in sede di audizione e in quella sede documentati. Quindi
i trenta giorni previsti potrebbero anche non essere sufficienti. Tutto questo
anche per un intervento di durata limitata (magari solo qualche ora) e tenendo
conto che nel frattempo il committente è lì con la pompa rotta e l’impianto
fermo.
In generale, quante volte in un
anno si potrebbero riproporre le stesse condizioni e quindi quanti contratti
un’azienda di manutenzione dovrebbe certificare annualmente? E con quali costi
e impegno di personale per la gestione di questa notevole mole di lavoro
amministrativo/burocratico? E comunque, con quale reale efficacia in termini
prevenzionistici?
Se si chiede a una qualsiasi
Commissione di certificazione quanti contratti di subappalto, specificatamente
per attività in ambienti sospetti
di inquinamento o confinati, ha certificato dall’entrata in vigore del
D.P.R. 177/2011 a oggi, la risposta che solitamente si ottiene conferma che si
tratta di casi rari. Ragionevolmente, questo non significa che in oltre un anno
su tutto il territorio nazionale si siano eseguiti solo pochi interventi in
questo settore (anche come quelli ipotizzati in precedenza), ma si può ritenere
che si sia comunque operato senza assolvere questo disposto, oppure che siano
state attivate modalità diverse di articolazione dei rapporti tra le parti in
modo da evitare, di fatto, il ricorso al subappalto.
Associazione Temporanea di
Imprese (ATI), avvalimento, nolo a freddo delle attrezzature, distacco
temporaneo del personale, nolo a caldo . ecc., sono solo alcune delle modalità
che, a torto o a ragione, sembrano essere in uso per evitare di far comparire
il termine “subappalto” nel testo dei contratti che regolano i rapporti tra le
parti. Nell’ambito dell’analisi comportamentale, questo meccanismo è definito “
evitamento”: il soggetto obbligato
posto sotto contingenza negativa (… certifica il contratto di subappalto sennò
ti punisco…) non lo attua e in alternativa pone in essere altri comportamenti
che gli consentono di non ottemperare all’obbligo oppure che sono a malapena
sufficienti per evitare la punizione. Il primo di questi, in considerazione
della sua presumibile frequenza di applicazione, è certamente quello di non
fare nulla e dissimulare l’attività cercando di non farsi scoprire. Il secondo
è quello di adottare ogni possibile modalità alternativa o trovare degli
“escamotage” (più o meno) legalmente applicabili. In entrambi i casi, spesso
con l’acquiescenza della committenza che, ovviamente, ha prioritariamente come
obiettivo quello di risolvere il problema contingente (es. riparare il guasto e
riavviare l’impianto) e quindi potrebbe rendersi disponibile a soprassedere su
quest’adempimento in presenza, peraltro, di un’effettiva ed efficace
applicazione degli altri presupposti normativi riguardanti informazione, formazione,
addestramento e corretta applicazione delle procedure di lavoro e di sicurezza.
D’altronde ai più appare poco
comprensibile come la certificazione
del contratto di subappalto così come concepita in origine, ovvero tesa
all’individuazione dei criteri che qualificano l’appalto come genuino, possa
realmente incidere sulla sicurezza delle attività negli ambienti sospetti di
inquinamento o confinati e inoltre, tenuto conto dei tempi d’istruzione e di
definizione della pratica, non risulti essere in contrasto con le necessità
operative aziendali. E questa posizione deriva direttamente dalla lettura della
circolare del Ministero del lavoro n. 5 del 10 febbraio 2011, la quale,
rinviando a un precedente documento, specifica in primis che i principali
elementi del contratto da valutare devono essere: attività appaltata, durata
presumibile del contratto, dettagli riguardo all’apporto dell’appaltatore e in
particolare precisazioni circa l’organizzazione dei mezzi necessari per la
realizzazione dell’opera o del servizio dedotto in contratto. E’ vero che, nel
seguito del testo, la stessa circolare tratta anche dei profili concernenti la
sicurezza del lavoro nella sezione “La sicurezza del lavoro negli appalti”, ma
nella trattazione dell’argomento non vi è nessun riferimento alla questione
certificazione del contratto di subappalto. Inoltre nell’ambito della Circolare
n. 48 (ripresa successivamente dalla Circolare INPS n. 71 del 1 Giugno 2005)
avente come oggetto: Commissioni di Certificazione – Istituzione – Regolamenti
interni – D.M. 21 luglio 2004 - Artt. 75 e segg. D.Lgs. 10 settembre 2003, n.
276 – con riferimento specifico alle problematiche inerenti alla costituzione e
al funzionamento delle Commissioni di Certificazione da istituirsi all’interno
delle Direzioni Provinciali del Lavoro, sono fornite precisazioni e chiarimenti
operativi. Innanzi tutto partendo dalla composizione della Commissione che, nel
caso specifico della Direzione Provinciale del lavoro, prevede la presenza di
due funzionari addetti al Servizio Politiche del Lavoro, un rappresentante
ciascuno per INPS e INAIL e una rappresentanza degli ordini professionali di
cui all’art. 1 della L. n. 12/1979 e dell’Agenzia delle Entrate, il tutto con
riguardo all’esigenza di ottenere il più ampio e qualificato apporto di tutte
le componenti professionali in materia giuslavoristica. Inoltre, sempre in
allegato alla Circolare del dicembre 2004, troviamo un’esplicitazione dei
temi oggetto di analisi da parte della
Commissione in caso di certificazione di un contratto d’appalto:
-
elementi del contratto: attività appaltata, durata presumibile del
contratto, dettagli in ordine all’apporto dell’appaltatore e in particolare
precisazioni circa l’organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione
dell’opera o del servizio dedotto in contratto;
-
apporto dell’appaltatore: a) nel caso di contratti
d’appalto concernenti lavori specialistici per i quali non risulta
rilevante l’utilizzo di attrezzatura o di beni strumentali, devono essere
acquisite notizie in ordine al know how aziendale o alle elevate
professionalità possedute dal personale impiegato nell’ambito dell’appalto,
nonché indicazioni sulle modalità di esercizio del potere organizzativo e
direttivo dei lavoratori; b) l’appalto riferito ai rapporti di mono committenza
deve essere attentamente valutato, al fine di verificare se in capo
all’appaltatore incomba l’organizzazione dei mezzi necessari e se è
rintracciabile il rischio d’impresa;
-
rischio d’impresa, indici: l’appaltatore ha già in essere
un’attività imprenditoriale; l’appaltatore svolge propria attività produttiva o
opera per conto di diverse imprese;
-
obbligo solidale: deve essere richiamato l’obbligo solidale che
vincola le parti contraenti in relazione ai trattamenti retributivi e
contributivi dovuti alle maestranze impiegate nell’appalto.
Perché quindi la certificazione
del contratto possa, in qualche modo, assolvere un superiore compito di tutela
delle condizioni di salute e sicurezza nel caso di appalto di attività in
ambienti sospetti di inquinamento o confinati, è necessario andare oltre a
quanto strettamente previsto dal D.Lgs. 276/2003; ovvero ogni Commissione di
certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la
costituzione, deve quindi avere
adeguate
competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura
strettamente giuslavoristica sopraelencati, anche altri aspetti peculiari
richiesti dal D.P.R. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, quali
l’effettiva presenza dei requisiti previsti dall’art. 2 c1, con particolare
riferimento all’informazione, formazione e addestramento del personale e dei
preposti, il possesso di attrezzature idonee a prevenire i rischi e DPI
adeguati, oltre all’elaborazione ed efficace attuazione di procedure operative
e di emergenza oggetto di verifica di apprendimento, aggiornamento ed
esercitazioni periodiche. D’altra parte la necessità di un maggiore
approfondimento su questi temi era stata esplicitata con la circolare
n. 42/2010; il Ministero del lavoro che aveva disposto che le Direzioni
Provinciali del Lavoro dovevano attivare tempestivamente specifici piani
d’intervento, effettuando un piano di monitoraggio dei lavori in appalto di
maggiore rilevanza e potenzialmente più rischiosi presso le aziende ove era
maggiormente ipotizzabile tale tipologia di rischio, così da poter predisporre
la
programmazione degli interventi
ispettivi volti in particolare alla verifica:
- della corretta e completa redazione
del DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenziali) da parte
delle aziende committenti;
- delle misure di prevenzione e
protezione previste per effettuare l’intervento lavorativo;
- dei contenuti e della
“effettività” della formazione/ informazione nei confronti dei lavoratori delle
aziende appaltatrici sui rischi interferenziali delle attività svolte;
- dell’efficienza del organizzativo
dell’emergenza predisposto.
Peraltro si pone l’accento come
nella successiva Circolare
n.13/2011 la Direzione generale per l’Attività Ispettiva, tenuto conto
delle risposte ricevute, della limitata casistica relativa alle iniziative
condivise con gli organi di vigilanza delle AA.SS.LL. competenti sulla
specifica materia e in considerazione dell’urgenza di porre in essere alcuni
interventi immediati per contrastare il fenomeno infortunistico in tali ambiti
particolarmente a rischio nelle more della completa attuazione del disegno organizzativo
delineato dal D.Lgs. 81/08 e della definizione di iniziative coordinate con gli
organi di vigilanza del Servizio Sanitario Nazionale, ha sollecitato le varie
Direzioni Regionali e Provinciali a procedere all’acquisizione della
documentazione utile a verificare la correttezza degli aspetti gestionali degli
appalti in esame anche sotto il profilo del rispetto della normativa in materia
di salute e sicurezza. Questo anche al fine di acquisire informazioni utili in
modo da poter informare e aggiornare tempestivamente i Comitati regionali di
coordinamento anche ai fini dell’opportuno coinvolgimento delle parti sociali.
Conclusioni
Fermo restando l’obiettivo di
garantire un adeguato livello di sicurezza nelle attività previste in ambienti
sospetti di inquinamento o confinati, sarebbe peraltro opportuno valutare quali
sia il reale impatto di alcune disposizioni introdotte con il D.P.R. 177/2011
in termini di applicabilità e di reale efficacia.
La predisposizione di una
corretta programmazione e la pianificazione di tutte le fasi operative con
particolare riferimento agli interventi in caso di emergenza, oltre alla
garanzia sia di un’adeguata attività d’informazione e formazione di tutto il
personale (compreso il datore di lavoro), sia del possesso d’idonei dispositivi
di protezione individuale, strumentazione e attrezzature di lavoro adeguati
alla prevenzione dei rischi propri delle attività lavorative in ambienti
sospetti d’inquinamento o confinati e il necessario addestramento al loro
corretto utilizzo, rappresentano condizioni imprescindibili per la sicurezza
dei lavoratori.
Resta da capire se il ricorso alla certificazione dei contratti possa
realmente essere funzionale all’elevazione del livello di sicurezza ipotizzato
dal Legislatore e comunque è necessario risolvere gli evidenti problemi che
tale adempimento comporta nella pratica quotidiana. Al posto della
certificazione dei contratti di subappalto, al fine di rafforzare l’attività di
controllo, forse, sarebbe stato meglio identificare un altro strumento più
semplice e già sperimentato quale, ad esempio, l’obbligatorietà della
segnalazione preliminare per via informatica dell’avvio di attività in ambienti
sospetti di inquinamento o confinati. Si sarebbe, infatti, potuto estendere quanto
già oggi previsto dall’art. 99 comma 1 del D.Lgs. 81/08, come modificato dal
D.Lgs. 106/09. Tra l’altro questo avrebbe anche avuto il vantaggio di poter
monitorare le operazioni effettuate, avviare l’identificazione e il censimento
delle aziende che operano nel settore e quindi consentire una migliore e più
efficiente pianificazione delle attività di controllo. Infatti, questa norma è
stata introdotta già dal D.Lgs. 494/96 allo scopo di rendere noti e
immediatamente conoscibili i dati concernenti il cantiere agli Organi di
Vigilanza, che, in questo modo, possono programmare degli interventi di
controllo nel comparto delle costruzioni, storicamente teatro di un elevato
numero d’infortuni sul lavoro. In conclusione
appare più che mai necessario e urgente sia rivedere il quadro
normativo di riferimento, al fine di dirimere i molti problemi interpretativi e
applicativi del Decreto, sia ricondurre la discussione su un piano prettamente
tecnico, nell’ambito del quale poter elaborate una specifica norma di riferimento
da sviluppare sulla base di linee guida, norme e/o standard e Best Practices
presenti a livello nazionale e internazionale.
Affermata sia l’importanza
dell’attività di cooperazione, coordinamento e informazione reciproca delle
imprese coinvolte, sia la necessità di verificare che la catena degli appalti e
subappalti non porti aziende o lavoratori
autonomi a eseguire attività per le quali non sono né preparati né
attrezzati, la questione è una sola: bisogna eseguire un’approfondita e
corretta valutazione dei rischi, un addestramento efficace, prevedere l’impiego
di attrezzature idonee e pianificare sia le attività ordinarie sia gli scenari
di emergenza, codificando le operazioni da porre in essere. Oltre a quanto
sopra, è però necessario anche attuare interventi che tendano a neutralizzare o
a ridurre al minimo il verificarsi di comportamenti caratterizzati da
inosservanza di norme operative o regolamentari, o dal porre in essere
comportamenti non conformi alle comuni pratiche di sicurezza, spostando
l’attenzione di tutta l’organizzazione verso la condivisione diffusa dei
“valori” della sicurezza intesi come specifici comportamenti verbali tra
lavoratori e verso l’attivazione di “comportamenti” di sicurezza misurati su
parametri oggettivi come frequenza, latenza, durata, intensità, ampiezza e
completezza delle azioni dei singoli.
Ing. Adriano Paolo Bacchetta
Coordinatore del network www.spazioconfinato.it
Come approfondimento ricordiamo ai nostri lettori un articolo di PuntoSicuro
di presentazione di una nota del Ministero del Lavoro – successiva all’elaborazione
del contributo di A. P. Bacchetta - in merito al requisito obbligatorio della
certificazione dei contratti nell'ambito dei lavori in ambienti sospetti di
inquinamento o confinati: “
Nota ministeriale: la certificazione dei
contratti negli ambienti confinati
”.
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